Massimo Causo
La fine del tempo, o qualcosa del genere. Dipende da come guardi le cose, se le prendi dal verso della durata, e allora lavori per lo spirito, sulla lunghezza d’onda della verità interiore, o da quello dell’intervallo, e quindi ti tieni in contatto con la statica delle emozioni, con l’attesa incombente dell’esistere. Pablo Larrain, Alexey German Jr., Wim Wenders, alla Berlinale 65, si muovono in questo arco: tre film, i loro, che slargano il rapporto con il tempo, lo rendono persistente nella sua drammaticità interiore, fluido nella staticità del dramma - di volta in volta morale, storico, esistenziale - che elaborano.
Pablo Larrain (che, in Concorso, con ogni probabilità si appresta a vincere l’Orso d’Oro...) si aggrappa al tempo della colpa per esporre il corpo sacro del male: El club (sul quale tutti, ovviamente, si butteranno come un film anticlericale...) è un’opera sulla dolorosa persistenza della colpa, incarnata - come sempre in Larrain – in un lasso di un tempo separato, nella sospensione della verità, nel momento congelato di un divenire già marcio, putrescente. Quattro uomini e una donna, tutti ex religiosi sospesi, in espiazione perenne di colpe che hanno a che fare col corpo, col sesso, con la materia della carne... La loro eternità colpevole, vissuta nella separatezza di una comunità ai margini di un paese sulla costa, è l’espiazione di un vivere nella materia, profani a se stessi e banditi dalla sacralità del loro mandato. Il cane da corsa che allevano amorevolmente si confronta con le cronometrie di una fuga laicale impossibile (le scommesse, la rivalità con le bestie del vicinato, la folla alle corse...).
Ma quel che conta è la ritualità implosa e inespressiva delle loro giornate, fatalmente interrotta dall’arrivo di un duplice perturbante: quello interno, incarnato da un nuovo ospite, un altro sacerdote che ha violato l’infanzia di un qualche innocente; e quello esterno, conseguente al primo, innescato nella comunità dalle urla scandalosamente salmodianti modulate davanti alla loro finestra da un santo folle, una specie di profeta profano che dice di chiamarsi Sandokan e che getta in faccia a quei peccatori lo scandalo del loro peccato: nelle sue lamentazioni c’è tutta la carnalità di memorie vissute e desideri repressi, quasi polluzioni verbali di uno sciamanesimo del peccato, l’orrore della colpa da praticare e reprimere. Larrain costruisce il dramma (ovviamente non poco surreale e terribilmente, crudelmente ironico, in continuità con Tony Manero e Post Mortem) come un giro nel cerchio ossessivo del male, una danza blanda e imperturbabile con l’umanità in decomposizione, dove non c’è scampo dalla morte dello spirito, mentre la carne magari persiste nella sua inutile gloria...
La “nuova chiesa” si abbatte allora come una scure sul peccato e sul peccatore, così come sulla vittima da santificare e sacrificare nella sua improbabile purezza: il giovane sacerdote, psicologo e inquisitore, pretende di portare regola e pulizia spazzando via quel rifugio, ma finisce nelle spire della vittima, nel suo salmodiante delirio che condanna ed esalta il male. E allora Larrain farà annullare tutto nell’inferno di quel mondo senza pietà che ha istituito, consegnandoci a un finale che magnifica un film al quale resta ignota la speranza. El club polverizza persino la straordinaria coerenza autoptica di Post Mortem, perché sembra davvero voler maneggiare la sostanza putrefatta dell’umanità, il vuoto che si trova a voler, nonostante tutto, cercare l’anima in un corpo. Il film è chiuso in questa disperazione visiva che cristallizza i piani in immagini disturbate e annebbia i campi nel soliloquio della luce fredda offerta dalla fotografia, se possibile anche più emaciata e pallida del solito, di Sergio Armstron (collaboratore solito di Larrain).
La sintesi sontuosa del tempo azzerato dell’umanità corona anche Under Electric Clouds (Pos electricheskimi oblakami, Concorso), capolavoro col quale Alexey German Jr. raggiunge di sicuro quella che al momento è la vetta del suo cinema, in formidabile e libera continuità con quello del padre, prosecuzione di uno sguardo che confonde nell’armonia la materia magmatica della Storia giunta al termine del suo cammino. Under Electric Clouds raccoglie in sette capitoli la funzione illusoria della realtà organizzata nelle coreografie di figure, sfondi e macchina da presa che prendono il nome di piani sequenza. Il lirismo terminale di uno sguardo che immalinconisce la fissità della fine del tempo si applica a uno scenario sospeso sull’edificazione illusoria della realtà: sembra quasi di essere in prossimità delle coordinate geografiche ed esistenziali di Jia Zhangke, postrealistiche e prefantastiche edificazioni di un mondo bloccato su infinite (nel senso di non finite) trasformazioni...
La sponda di un fiume accoglie il sito terminalmente in fieri di un cantiere futuristico appartenuto ad un magnate forse visionario, forse solo speculatizio, morto in disgrazia. La figlia ritorna dall’estero e si immerge in questa eredità disgregata, ormai abbandonata da cortigiani e familiari dell’estinto “zar”: il fratello inerme e cechoviano che fa lirismo fragile, il geometra ormai disoccupato, gli operai immigrati che parlano una lingua sconosciuta, i mafiosi che tengono in ostaggio una bambina, l’architetto con l’occhio marchiato da una voglia purpurea che vaga come un revenant, una guida turistica in costume imperiale che rimpiange il suo passato di dignitario di Eltsin... Il tempo è fermo e infinito nella sua fine, in questa terra di nessuno che rimpiange la sua storia, sogno di edificazioni che organizzano la realtà in spazio e tempo e senso: lo scheletro di ferro di un enorme cavallo, che troneggia inutile in direzione del fiume, sarà trascinato via nel lancinante finale dalla erede di quell’impero e German ci lascia con la sensazione di un film che rimpiange se stesso, non per incompiutezza ma proprio per la sua lampante perfezione.
Under Electric Clouds è un dispositivo emotivo straordinario, ma la verità sta tutta nella dislocazione spaziale illusoria delle figure, tanto quanto nella loro perdizione temporale realistica. La parabola è immane e si esalta nei cromatismi elettrici di un mondo nebuloso, chiudendosi nella circolarità di una struttura fantasmatica che ritrova l’inizio nella fine, così come descrive il rigor mortis nella deambulazione continua del piano sequenza.
E poi c’è Wim Wenders, che in Every Thing Will Be Fine (Fuori Concorso) insiste sul tempo bloccato di un mondo interiore, luogo perenne del suo cinema: lo scenario canadese (trasfigurazione dell’immaginario nordico offerto dallo script del norvegese Bjørn Olaf Johannessen) si propone come schema naturale di una tragedia psicologica composta tra la fine e l’inizio, nella stasi emotiva, lunga dodici anni, di Tomas (James Franco), uno scrittore alle prese con il sordo tormento di aver causato accidentalmente la morte di un bambino, investendolo con il suo fuoristrada. Di fronte a lui c’è la vita che continua, c’è Christopher, il fratello della vittima, scampato al medesimo incidente, che vede in lui una sorta di padre salvatore; c’è la madre Kate (Charlotte Gainsbourg), che sopravvive al lutto nella sua distanza silenziosa; c’è una carriera di scrittore che ha imboccato il successo...
La composizione è quella di un classico dramma psicologico e Wenders la affronta con un cinema che sembra germogliare dalla memoria hollywoodiana degli anni Cinquanta con tensione visiva e cromatica che fa omaggio al Coppola anni Ottanta, quello di cui pure il tedesco era stato produttore. Il 3D voluto da Wenders sostanzia più che altro una tensione visiva che lavora sulle geometrie architettoniche degli edifici (sottopassi, piloni di cemento), mentre la profondità si schianta sul gioco perenne degli schermi offerto dalle infinite finestre che riquadrano, sin dalla prima, quasi tutte le inquadrature. Mentre i cromatismi technicolor e il gioco del controcampo trattenuto sulle dissolvenze incrociate attualizza una tensione didascalica che riscrive classicamente la realtà.
L’impressione è che Every Thing Will Be Fine sia ad un passo da un film come Paris, Texas, di cui ritrova il senso sospeso sul recupero esistenziale, sul ricongiungimento che sanifica il tempo, sulla necessità di riconnettere biografie ed emozioni. James Franco, anestetizzato in uno stadio di semi incoscienza attoriale, lascia svaporare Tomas nella sua irresolutezza emotiva, come fosse un fantasma bloccato nel suo dolore non dichiarato. Wenders galleggia in apnea su una poetica ed un cinema che non si può trascurare.