Hors_Satan_defLe gars è un vagabondo, un uomo al di là del bene e del male. Elle è una ragazza che lo segue fedelmente tra i sentieri della Costa d’Opale, luogo dei loro devoti pellegrinaggi. Bruno Dumont, giunto al settimo lungometraggio, sembra riallacciarsi alle dinamiche del lavoro più sperimentale e defilato della sua filmografia: Twentynine Palms. Ma l’infelice pellicola presentata a Venezia quasi dieci anni fa è uno scialbo ricordo. Il registro è cambiato, le idee appaiono più solide: siamo, probabilmente, davanti al capolavoro del regista francese.



Dumont allarga il campo visivo aprendosi, definitivamente, al paesaggio e lasciandosi alle spalle le vie in discesa, tra i mattonati borgogna delle case, della sua Bailleul; strade di scorribande adolescenziali sconfinanti nell’ umida campagna (La vie de Jésus), e di lunghe e desolanti attese, come sentinelle del quotidiano, del sopraggiungere insperato di un senso, a infrangere il torpore dell’ordinario (L’humanité).

Lo sguardo viene sommerso dalla religiosa foschia che l’orizzonte albeggiante esala lungo la Costa d’Opale, luogo straordinario e misterioso che condensa i territori dell’intero cinema dumontiano. Ritroviamo la campagna desolata dal cielo livido de La Vie de Jésus, L’humanitè e Flandres; il deserto stepposo di Twentynine Palms e quello insidioso di una zona di guerra e soprusi di un paese imprecisato, forse, del Medio-Oriente, in Flandres; e la costa, col suo mare mosso, in cui schiumano i sogni nostalgici di un’isola perduta, già apparsa ne L’humanitè. Come lo stesso regista suggerisce - tutt’altro che refrattario alle interviste e incline ad approfondite analisi dei suoi lavori, nelle cui parole s’insinua una malcelata urgenza a spogliarsi di quella etichetta tanto scomoda, erroneamente affibbiatagli, di regista sociale - il suo è un cinema mentale, anti-topografico, dove il paesaggio traccia il territorio tortuoso della psiche dei personaggi, scandagliata attraverso l’uso della soggettiva, motivo ricorrente nell’estetica dumontiana.

Le gars è un vagabondo; totalmente slegato dagli ingranaggi cigolanti della macchina sociale; è un uomo al di là del bene e del male. Con fare impassibile uccide il padre di Elle salvandola dai soprusi paterni; ammazza brutalmente il guardiano della costa massacrando il concetto violento di proprietà e libera una ragazzina abulica e una donna voluttuosa, incontrata sul tragitto, dalle insidie del demonio. Si tratta di una figura sfuggente, piena di contraddizioni, sganciata da qualsiasi coercizione sociale,  svestita, per dirla con Michelstaedter, di quell’avvilente “camicia di forza o camicia rettorica” di cui l’uomo sociale si fa vanto.
«Voglio che il cinema sia un momento di regressione totale e che la questione della morale non si ponga eventualmente che dopo la proiezione. I dibattiti morali nascono da ciò che è nella testa dello spettatore, non da ciò che è sulla pellicola» rivelava il regista in un’intervista rilasciata alla rivista Positif. Senza tetto né legge, potremmo dire parafrasando un celebre film della Varda, Le gars, cioè il ragazzo, interpretato da David Dewaele, sguardo vitreo e volto spigoloso, già ne L’humanitè, e figura marginale in Hadewijch,  sembra agire in un perenne stato sonnambulo tipico dei personaggi bressoniani.

D’altronde il lavoro teorico alla base del cinema di Dumont si salda in più punti con quello che contraddistingueva il cineasta di Bromont-Lamothe. Bresson nel suo diario-manifesto, Notes sur le cinématographe, parlava della cinematografia come un linguaggio nuovo fatto di immagini e suoni, che si avvale della preziosa tecnica del montaggio, fondamentale nello scandire il ritmo, e sosteneva ardentemente un approccio alla realtà sulle sensazioni dei pittori - «Abbi l’occhio del pittore, il pittore crea guardando» (1986, p.116). Dumont riprende le riflessioni bressoniane e s’accorda ai dettami teorici di Henri Matisse, che, come il regista ama spesso citare, esaltava la disposizione delle cose e della proporzione tra le cose inficiando il soggetto.
«Il soggetto ha un’importanza relativa, quello che mi importa è la cinematografia, ovvero scrivere una storia con delle immagini e dei suoni» sostiene Dumont, e aggiunge «la sceneggiatura è ancora una cosa piuttosto pensata, piuttosto intellettuale che bisogna distruggere per essere molto vicino all’attore, perché l’attore sia il personaggio». Difatti, scarnificando soggetto e sceneggiatura, egli vira, dopo Hadewijch, tra i film più strutturati firmati dal regista, verso una rarefazione narrativa. E servendosi anche di lente dissolvenze al nero, vertiginose apnee visive, smembra e frammenta la linearità diegetica sfilacciando il corso del tempo.

È evidente il tentativo di riallacciarsi alle dinamiche del lavoro più sperimentale e defilato della sua filmografia: Twentynine Palms. Film impalpabile che si perdeva lungo i sentieri polverosi del deserto californiano tra “inconsapevoli” tributi all’Antonioni di Zabriskie Point, svigorite pennellate dalle cromature erotiche e maldestre soluzioni di ispirazione horror. Ma il registro è cambiato, le idee appaiono più solide: siamo, probabilmente, davanti al capolavoro di Dumont.

La teoria Merleau- pontyana «secondo cui il cinema si caratterizza prima di tutto non per ciò che mostra, bensì per ciò che non mostra, dal momento che la visione vi si configura essenzialmente come possibilità anziché come effettualità, ed è sempre l’invisibile che condiziona, determina e costruisce il visibile» (2009, p.52) sembra aderire perfettamente al cinema di Dumont e sublimarsi in Hors Satan, dove l’invisibile, in passato imbrigliato nel suo liminale latente e indecifrabile, sconfina nel visibile. Visibile rincalzato sapientemente con il prezioso ausilio del sonoro in presa diretta, capace di amplificare il fruscio nervoso del vento, lo sciabordio delle onde del mare, lo scalpiccio inquieto di Le gars ed Elle. Coraggiosamente il regista invita lo spettatore a spingere il suo sguardo oltre i confini del visibile, verso un altrove che si sottrae a qualunque rappresentazione ed esperisce l’invisibilità come elemento costitutivo della stessa immagine visibile. Ecco, sembra chiaro, ormai, che il cinema di Dumont si riveli in bilico tra il visibile e l’invisibile, il dentro e il fuori, l’altro e l’altrove.


Bibliografia
Canova G. (2009): L’alieno e il pipistrello, Bompiani, Milano
Bresson R. (1986): Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia





Titolo: Hors Satan
Anno: 2011
Durata: 110
Origine: Francese
Colore: C
Genere: Drammatico
Produzione: 3B Productions, C.R.R.A.V Nord Pas de Calais, Le Fresnoy Studio National des Arts Contemporains, Cinémage 5, Canal +, CinéCinéma, Contact Film, CNC, Région Nord Pas de Calais

Regia: Bruno Dumont

Attori: David Dewaele (Le gars), Alexandra Lematre (Elle), Christophe Bon (Le garde), Juliette Bacquet (La gamine), Aurore Broutin (La routarde), Sonia Barthélémy (La mère de la gamin), Valérie Mestdagh (La mère), Dominique Caffier (L'homme au chien)
Sceneggiatura: Bruno Dumont
Fotografia:
Yves Cape
Montaggio: Basile Belkhiri, Bruno Dumont
Sonoro: Emmanuel Croset, Nicolas Gilou, Philippe Lecoeur, Olivier Walczak

Reperibilità


http://www.youtube.com/watch?v=1bFaX7awiPQ

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