corpi estraneiL’inizio di Out of the Furnace di Scott Cooper (tra i produttori anche Ridley Scott) è una splendida pagina di cinema: scena violenta in un drive-in (con wurlstel infilato in gola a una donna, che fa il paio col pollo di Friedkin in Killer Joe) mentre sullo schermo scorre un film ad alta velocità, a cui contribuisce la dolcezza dell’arpeggio di Release di quei Pearl Jam che con Ten (1991) avevano dato inizio al grunge (poi non saranno mai più gli stessi) e il cui spirito qui è presente solo nelle camicie a quadri del protagonista; che poi, secondo me, per aprire una parentesi, raggiungerà il suo vertice (il grunge) con Dirt degli Alice in Chains (concentrato a mostrarne il lato oscuro, tragico, di sicuro più dissonante: e qui ci sarebbero cose da dire almeno sui Soundgarden - eh sì i Nirvana, certo -; ma poi mi pare che il cinema abbia usato poco la vasta temperie di questo genere, se non per puntellare le atmosfere del Corvo o di Giovani carini e disoccupati o Singles, ecc., tutta una congerie di problematiche e sentimentalità che non erano posticce e gratuite alla metà degli anni Novanta), quando manco diciottenni si suonavano i CCCP rinchiudendosi nei monolocali mucidi, senza bagni, senza finestre, senza termosifoni, e si pisciava nelle bottiglie di tè, che poi arrivava Vito all’improvviso, mentre gli altri frustavano le teste e facevano ballare le chiome, e senza chiedere nulla s’attaccava alla bottiglia assetato per poi sputare e vomitare.


Ma poi il film diviene una goffa storia di vendetta (anche noiosa), con sullo sfondo l’America più rude e selvaggia dell’entroterra, delle montagne dove consumare un tranquillo week-end di paura e cacciare cervi: e dove la citazione da Il Cacciatore è troppo esplicita e posticcia per non infastidire; rimasticazione e banalizzazione di alcuni temi dell’epica americana, dalle tenzoni western alle vergogne della guerra in "Viet fottuto nam". In questo senso il recente Joe di David Gordon Green appare molto più efficace e cattivo, con stratificazioni simboliche (più) interessanti, inradicate alla questione vegetativa (diserbazione/innesto arboreo).

Molto meglio I corpi estranei di Mirko Locatelli che però non ha dalla sua un arpeggio come quello di Release e invece uno molto piatto e scialbo dei Baustelle, autori di una colonna sonora strumentale (ma si sa che loro hanno una loro connotazione per via dei testi e per il cantato agrodolce e infantilmente retro, no? Perché allora brani strumentali?) che danno al film un che di televisivo, quando invece la questione è seria. E lo è proprio dal punto di vista cinematografico, a prescindere da quella che parrebbe (e in effetti è), in un primo momento, la serietà del tema, come dire, sociale del film, con tutta la noia e la banalità che scaturiscono sempre dalla concentrazione sui temi. Cioè, il film alla fine, fuori dal tema, è una declinazione della questione della presenza (Rancière direbbe presentificazione), dell’epifania (il ragazzo arabo, il diverso), altro che si dà gratuitamente all’altro, per semplice spirito di comunanza; pare un fantasma (uno spirito appunto) che si aggira per l’ospedale; e il suo pianto finale (scena stupenda), silenzioso, fermo, pare la risposta al problema religioso che mi sembra la filigrana di tutto il film (ma non certo, alla fine, delle religioni, come dire, rivelate), tra cristianesimo (sentito o meno, quello di Antonio) e islam: sincretistico pianto di un angelo musulmano, che è infrazione dei dogmi, per una sostanziale credenza dell'epifania, del suo miracolo.