Veleno è la storia del sangue che circola. Linfa della terra impregnata dagli sversamenti di rifiuti tossici, sangue vivo di una classe contadina che si ammala per osmosi, tanto essa è legata da infinite generazioni alle zolle dei campi. I fluidi vitali malati scorrono impazziti, fino a uscire dai luoghi in cui dovrebbero normalmente riposare: così gli sbocchi di sangue di Cosimo Cardano sono simili ai liquami infetti che trasudano dalle buche riempite di scorie assassine.

 A prima vista Veleno sembrerebbe disegnare le spire di un circolo vizioso: la “fatica” segna i volti e i corpi, le ecomafie segnano le anime e le corrompono, ma per combattere la miseria imposta dal malaffare non resta che allearsi proprio con il crimine organizzato. Inevitabile è la vendetta della natura, che colpisce tanto innocenti che colpevoli in modo fatale e primordiale. Se narrativamente è come incentrato su un vicolo cieco di sventure, in quanto a echi e sensazioni il film è invece fruttuosamente aperto, e interloquisce con alcuni classici di riferimento. Scorgiamo anche un aggiornamento della critica sociale alle connivenze con il malaffare di certo Damiani o persino del De Santis che racconta la lotta del singolo contro le strutture collettive di potere. Più vicini nel tempo, si colgono echi interessanti del cinema campano che dialoga con il mito e la tragedia classica (Piscicelli, Gaudino o Capuano in primis), in una ricontestualizzazione feconda di stilemi di genere e figure archetipiche.
Veleno si innesta con cosciente convinzione in una tradizione decennale che il cinema italiano non può permettersi di dimenticare.

Diego Olivares si muove con sapienza sui bordi emotivi, sui limiti di una narrazione estrema, senza mai travalicarli: nella parlata sapida e densa, nella contrapposizione atavica dei principi in lotta, persino nei raccordi nervosi e nei gesti improvvisi dei suoi personaggi, opera consapevolmente con gli elementi costitutivi di nobili tradizioni culturali della sua terra, quali la sceneggiata. Ma, precisiamo, Olivares non “gioca” con i generi, non imita pedissequamente, non cuce un mero collage di situazioni. Il suo è un impegno assolutamente rispettoso, teso a rivitalizzare una ricchezza di memorie e meccanismi narrativi che ha il sapore terragno e spigoloso della lingua napoletana.

Rispetto allo schema classico della sceneggiata il triangolo amoroso attraverso la presenza della terra assume dimensioni arcaiche, evocando in modo fatalistico una lotta feroce fra l’uomo e la natura in un contesto di vorace capitalismo.
Cogliamo qui un approccio antropologico alla questione meridionale che non si impantana in scorciatoie sociologiche, né si accontenta di generalizzazioni schematiche. Autore anche di una sceneggiatura molto serrata, Olivares rimane piantato su coordinate concrete, individuali, concedendo ai suoi attori un palcoscenico ferito e scarnificato, ideale per realizzare una “    platealità controllata”, mai pigramente teatrale, bensì corroborata da una robusta vena di pathos verista: non ricordiamo di aver mai visto un Nando Paone così mefistofelico, concentrato di avidità programmatica e untuoso egoismo; da parte sua Salvatore Esposito non cade nella trappola dell’autostilizzazione gomorriana e si inventa un “avvocaticchio” intrappolato fra aspirazioni carrieristiche e improbabili velleità riformiste, mentre un Massimiliano Gallo leonino ed essenziale nella sua lotta valoriale intesse un dialogo emotivo di grande intensità con Luisa Ranieri. Ed è proprio la Rosaria generosa e dolente di Luisa Ranieri a costituire il pilastro su cui si regge il film: è lei che con la sua maternità fiduciosa riscatta la violenza della natura e la disumanità dell’ambiente.

La terra è amante possessiva e a tratti vendicatrice, ma anche ricettacolo di promesse per i ragazzini non ancora “avvelenati” che con rispetto e curiosità perlustrano la natura circostante. Non resta che interrogarsi, fra lo sgomento e la speranza, così come canta Enzo Gragnaniello sui titoli di coda: “ma chi sa se veramente questa terra è ancora mia”.


L'articolo è tratto dal catalogo della 32^ Settimana Internazionale della Critica - Mostra di Venezia.