«Il cinema non è la realtà, è qualcosa di diverso, forse sempre qualcosa in più, perché quando riprendi qualcosa nel momento stesso in cui diventa cinema immagine, non è più la stessa realtà. Perché per quanto ci si possa sforzare di riprendere in modo documentaristico, il più neutrale possibile, il risultato finale, la ripresa l'immagine, è sempre il reale più il tuo modo di riprenderla che esprime quindi il tuo atteggiamento e le tue intenzioni verso quella cosa»


Filmografare la guerra

Con queste parole di Martina Parenti si concludeva l'intervista che avevamo fatto per parlare di Blu, il visionario mediometraggio sui lavori di costruzione della linea blu della metropolitana di Milano che insieme a Massimo D’Anolfi avevano presentato al Lido fuori concorso nell'edizione numero 75.
Quest'anno li ritroviamo nella sezione Orizzonti con il sorprendente Guerra e pace, e dopo la visione quelle parole pronunciate in epoca più che sospetta, visto che ai tempi questo film era in fase avanzata di scrittura se non già in lavorazione, acquistano una pienezza di senso profetica.
Guerra e pace, infatti, ruota tutto attorno all'idea della cinematografizzazione di un certo oggetto, la guerra, e si propone di riflettere sulle trasformazioni, le mitizzazioni, le falsificazioni più o meno coscienti cui l'oggetto in esame va incontro per via del processo della sua narrativizzazione attraverso un sistema di immagini.
L'immagine, soprattutto quando è immagine "ufficiale", destinata a una divulgazione pubblica, in quest'epoca di crescente iconizzazione di una sfera comunicazionale che sempre più si affida al messaggio visivo, alla veicolazione di immagini per esprimere sinteticamente concetti e manifestare identità, non è mai "innocente" o "trasparente"e sempre più assume i tratti di una rappresentazione o auto rappresentazione intenzionale. Per campo di indagine D’Anolfi-Parenti si scelgono quello del rapporto tra cinema e guerra, ripercorrendo una storia che inizia nel 1911, anno in cui i primi cineoperatori furono spediti in Libia con l'innovativa funzione di "inviati" a seguito delle truppe, per testimoniare la nostra scellerata impresa coloniale, e giunge fino ai giorni nostri, in cui la narrazione visiva dei conflitti è nebulizzata e dispersa nelle memorie digitali di milioni di cellulari e divulgata in quella semiosfera immateriale che è il web.

Dietro l'immagine: La Teknè degli invisibili

L'obiettivo discreto di D’Anolfi e Parenti entra nei templi dove queste immagini del conflitto si interpretano, si costruiscono a tavolino, si studiano e si conservano, documentando le prassi operative dei tecnici di laboratorio, docenti di semiologia dell'immagine, funzionari ministeriali, che usano le immagini di guerra come materiali concreti del loro lavoro. Il piano del visivo di questo film è il vero e proprio trionfo di un voyeuristico feticismo tecno-cinematografico. È tutto un darsi in meticolose immagini di "ferri del mestiere": pellicole antiche e nuove, vetuste e preziose lastre fotografiche, moviole e pizze di diverso formato, proiettori di diverse ere tecnologiche, ma anche operazioni minuziose di pulizia chimica dei fotogrammi, il taglia e cuci manuale effettuato sulle pellicole, pratiche di scomposizione digitale dei canali RGB del fotogramma, un vero e proprio compendio del fare cinema (manualmente). Ma in fondo si tratta solamente dell'ennesima epifania del "D’Anolfi&Parenti's Touch" l'inconfondibile stilistica ricorrente del duo, che da sempre si focalizza sulle specifiche teknè pratiche dei processi che osservano, uno sguardo da sempre rivolto a quei saperi pratico-tecnici che innescano il processo trasformativo di una materia altrimenti inerte per renderla "opera", "manufatto". Che si tratti di testimoniare il fine lavoro degli "scalpellini" del Duomo di Milano, piuttosto che dei lavoratori delle cave di marmo, dei costruttori di strumenti musicali, gli steel drum, o di chi scava le viscere del suolo impegnato in complessissime procedure tecniche, il cinema di D'Anolfi e Parenti è sempre una forma di testimonianza del lavoro di quegli invisibili che stanno "dietro", le opere, i manufatti o, come in questo caso, dietro l'immagine, quei prodotti dell'uomo, manufatti, di cui comunemente fruiamo senza porci domande sui processi o i soggetti che ne sono gli artefici.

Il falso mito dell’oggettività dell’immagine-manufatto

Ed è proprio questa l'idea dell'immagine che emerge da questo film, quella di un'"immagine-manufatto", prodotto di un fare manuale, dell’operatore, dello sviluppatore e del montatore, certo, ma anche di processi di senso e strategie volontarie, di un progetto di significato, che precede e orienta la manualità istruita sul piano tecnico. Una cosa, un primo e più immediato livello di rappresentazione degli scontri, sono le singole “immagini”, al plurale, della guerra, le testimonianze visive più (le riprese dei cineoperatori del 1911) o meno (le riprese dei cellulari di chi si trova coinvolto nei conflitti) strutturate per significato, registrate “in vivo” da cineoperatori professionisti o occasionali che si trovano in presenza degli eventi. Cosa ben diversa, invece, è “l’immagine” della guerra, al singolare, quando con questo termine si voglia designare l’immagine generale, per come è diffusa nel mondo a livello mediatico, dell’argomento guerra, che invece è una narrazione, non una testimonianza, e che come tutte le narrazioni non è, non può essere, oggettiva, ma esprime il punto di vista del suo narratore. Un narratore che diversamente dagli scrittori e dai pittori che pure sul tema guerresco si sono lungamente esercitati, usa come materiali del proprio racconto “le immagini della guerra”, al plurale, quelle molte immagini individuali e soggettive che i singoli registrano come testimonianza diretta. Il narratore di turno organizza secondo il proprio progetto di senso queste immagini-testimonianza della guerra, le monta, le taglia, le inserisce in un ben più vasto discorso la cui pretesa “oggettività” dovrebbe essere garantita proprio dalla natura “in presa diretta” di quelle stesse immagini che invece manipola per veicolare ideologie e punti di vista ben specifici. Il “nostro” punto di vista, quello “degli Americani”, quello “dell’Esercito”, piuttosto che il punto di vista “degli islamici” e via dicendo. Una narrazione profondamente “cinematografica”, per come di queste immagini fa uso altamente drammatico ed espressivo, teso ad evidenziare gli aspetti lacrimevoli e di dramma più funzionali al punto di vista posizionato che si intende far passare come verità. La guerra che si fa cinema.


In fondo si tratta solamente di riportare alla luce l’ancestrale natura intenzionale delle immagini al di sotto del falso mito dell’oggettività. Un mito tardo, ottocentesco, che nasce nel momento in cui, con le prime tecniche eliografiche di riproduzione «tecnica dell’immagine» direbbe Benjamin (Vista Dalla Finestra A Le Gras di Joseph Nicéphore Nièpce è del 1821), diventa possibile affidarne la riproduzione al dispositivo meccanico, che per assunto si ritiene neutrale e oggettivo perché incapace di una volontà propria. Il mito di un’immagine fedele riproduzione del reale, un’immagine “oggettiva”, nasce quando l’iconogenesi viene sottratta alla mano, e dunque alla volontà dell’uomo, per essere affidata allo sguardo oggettivo del dispositivo non biologico. Nella sua storia millenaria, invece, l’immagine è sempre stata intenzionale, non neutralmente oggettiva, usata come strumento di espressione di intenzioni e significati precisi. Il nerboruto Homo sapiens che nella luce tremolante di una torcia disegnava il possente mammut sulla parete della sua grotta non lo faceva per il piacere di riprodurne un’immagine fedele, ma per esprimere la volontà, comune nel pensiero magico-animista, di dominarne, o possederne, l’immane forza. E così tutte le immagini di faraoni, imperatori, re e regine, pontefici e potenti d’ogni sorta e, soprattutto, quelle di battaglie e guerre, sempre furono prodotte con l’intento se non proprio dichiarato, quantomeno da tutti sottinteso, di celebrare e glorificare, di santificare ed epicizzare le persone e gli eventi a mezzo della loro effige, e non certo per ritrarli oggettivamente.
Una delle consapevolezze che certamente Guerra e Pace suscita è proprio quella della non oggettività dell’“immagine della guerra” intesa come costruzione di un discorso mediatico “sulla guerra” che usa la presunta oggettività dell’immagine per mascherare il proprio livello di soggettività e ideologizzazione pregressa.

Testimoniare, narrare, spettacolarizzare: la confusione dei livelli

C’è un momento epifanico del film in cui questa convergenza di tecniche di rappresentazione tra cinema e testimonianza diretta della guerra si fa davvero surreale. Siamo con gli studenti del corso per cineoperatori dell’esercito francese, che devono uscire per la loro prima esterna al seguito di un battaglione che si cimenterà in una esercitazione operativa. I giovani cameraman accendono le loro handy-cam e si lanciano al seguito dei militari che avanzano a strappi, si gettano dietro ripari improvvisati, strisciano al passo del giaguaro, sparano. Le riprese che vediamo lasciano di stucco, perché improvvisamente ci ritroviamo proiettati nel pieno del più tipico dei film hollywoodiani contemporanei sulla guerra, da Salvate il soldato Ryan a quelli più recenti sulle guerre in medio oriente tipo American Sniper. L’identico nitore un po’ glaciale dell’immagine digitale in alta definizione, lo stesso modo dell’obiettivo di gettarsi a ridosso dei corpi dei militari ottenendo primi piani scentrati e ballerini colti nella foga di un’azione che non concede tempo alla centratura, la stessa immagine sballottata e peregrina, continuamente scossa dagli sbandamenti del corpo, dai sobbalzi della corsa, dall’ansimare dell’operatore. Fa davvero impressione constatare quanto le riprese realizzate da un operatore tecnicamente istruito con intento documentale, come testimonianza oggettiva di un’azione militare, siano del tutto identiche a quelle di un operatore “di set”, istruito per realizzare un’opera di fiction.

E fa altrettanta impressione, altro lato della medaglia, toccare con mano (con occhio, in verità) a quale livello di realisticità si siano ormai spinte certe produzioni cinematografiche, in cui tutto, le divise, le armi, il modo di muoversi e il gergo dei militari, lo svolgersi delle azioni belliche, non sono più frutto “di una recita”, di un tentativo del cinema di approssimarsi alla realtà, ma azioni reali, cui mancano solo dei veri morti per essere guerra a tutti gli effetti. Cinema allo stato puro. Non è più possibile, basandoci semplicemente sul livello stilistico delle riprese, distinguere ciò che è documento reale, testimonianza diretta di un evento, da quella che è la sua trasposizione narrativizzata e spettacolarizzata, la fiction. Ed è proprio questo uno degli aspetti su cui il film vuole indurci a riflettere, quello di una pericolosa convergenza e omologazione dei modi di rappresentazione della guerra che, grazie alla schermatura fornita dal falso mito “dell’oggettività” dell’immagine e del valore di veridicità che comporta, permette agli interessati di confondere i livelli, di far passare come testimonianza oggettiva ciò che in realtà è costruzione narrativa intenzionale e spettacolarizzata, film di fiction, documentario o servizio giornalistico che sia. La questione, ovviamente, assume una rilevanza cruciale se pensiamo che ad oggi “l’informazione”, l’insieme di fonti reputate attendibili in quanto oggettive a cui attingiamo senza ulteriore vaglio critico per costituire la nostra idea personale del mondo, è in realtà il risultato di un processo di cinematografizzazione, di narrazione spettacolarizzata e presignificata. Un distopia di portata pandemica che rende potenzialmente inattendibile qualsiasi nostra opinione che non sia fondata sull’esperienza diretta dei fatti. Non si tratta tanto di denunciare la natura non oggettiva dell'immagine della guerra che scaturisce dalle narrazioni che se ne diffondono, questa, anzi ne è attribuzione storicamente sedimentata, quanto di prenderne coscienza al di là della pretesa veridicità con cui la mascherano al giorno d'oggi i professionisti dell'immagine e della comunicazione basandosi sull'assunto secondo cui "se te lo mostro è vero".

Morale ed etica dell’immagine

È a questo livello della riflessione sulla natura “non innocente” dell’utilizzo che viene fatto delle immagini della guerra che il film di D’Anolfi e Parenti innesca una deriva di tipo morale ed etico, in cui si postula che la produzione di immagini, soprattutto se di guerra, comporti una necessaria assunzione di responsabilità. La responsabilità “sull’immagine”, la responsabilità morale che comporta il ritrarre o il non ritrarre una certa immagine, la responsabilità morale che riguarda la scelta del mostrarla, del farla circolare perché altri la vedano.
«Non è una vostra responsabilità» asserisce con fermezza l’istruttore dell’accademia militare quando deve trattare il tema morale con i suoi studenti-cineasti «Ci sarà un vostro superiore, dotato di un livello di preparazione adeguata per farlo, che valuterà se era giusto riprendere l’immagine e se è lecito mostrarla, e se l’immagine supera le sue competenze anche lui dovrà rivolgersi a un suo superiore, che potrà rivolgersi a un altro superiore ancora, e via dicendo». Nella sua semplicità il discorso è impressionante perché svincola la scelta del riprendere o non riprendere, del mostrare o del non mostrare un’immagine da qualsiasi criterio fondato su un principio di tipo morale che viene invece sostituita nella sua funzione discriminatoria dalla “preparazione” , cioè dalla formazione tecnica, e certamente ideologica, che i vari gradi della gerarchia comportano. E sottrarre l’immagine al dominio della morale, per sottoporla a qualsivoglia genere di diversa istanza è senza dubbio pratica pericolosa in un contesto in cui le immagini attraverso la rete godono di una esposizione alla visibilità mai sperimentata e di una fruizione rapida, troppo spesso acritica.

Ancor più grave, poi, è che secondo il sergente sia possibile liberare l’autore delle immagini da ogni responsabilità di giudizio in base al criterio gerarchico, che scioglie il naturale legame di responsabilità che chi punta l’obiettivo e accende la macchina deve assumersi nei confronti del soggetto del suo riprendere e lo affida a soggetti terzi, i superiori, che con quelle riprese non hanno alcun legame effettivo, non essendosi mai trovati fisicamente alla presenza di quei casi umani e drammi, di quel sangue e quei morti che vedono solo in effige. Ma le immagini sono la vita, sono la traccia residuale di veri accadimenti, di persone vere e di veri sentimenti, ed è innanzitutto nei confronti di questi, del rispetto che gli si deve, che l'operatore creatore di immagini è responsabile. In tralice, dunque, quella che si richiede a chi fa immagini è un’assunzione di responsabilità, il comprendere che il puntare l’obiettivo di una macchina da presa, li decidere di imprimere o non imprimere su un supporto fotosensibile o in una memoria digitale certe immagini, il decidere se mostrarle o meno, non sono atti insignificanti, ma scelte morali ben precise, che hanno conseguenze importanti tanto sulla sfera emotiva dei soggetti ripresi che sulla percezione che altri avranno dello svolgersi degli eventi e che produce conseguenze di prim’ordine nel modellare l’opinione e le credenze sul mondo dei molti soggetti che quell’immagine vedranno.

4 Epoche, 4 Capitoli, 4 sguardi sull’immagine

Il percorso narrativo si snoda attraverso quattro luoghi topici, che i registi fanno corrispondere a quattro epoche diverse della relazione cinema-guerra, intitolando a ciascuno uno dei quattro capitoli del film: Passato remoto, Passato prossimo, Presente e Futuro. l’Istituto Luce di Roma, dove seguiamo le mille operazioni fotochimiche e manuali di chi riporta a nuova vita le testimonianze del passato, i filmati dei cineoperatori del 1911, che regalano a questo film suggestivi momenti di antichi viraggi, immagini d'antan a 18 fotogrammi al secondo, la memoria remota del cinema (e da cui traspare un'immagine di questi italiani colonizzatori non proprio edificante). Poi ci ritroviamo nelle sale operative dell’Unità di crisi del Ministero degli Esteri italiano, dove filmati di conflitti provenienti da ogni parte del mondo vengono studiati e catalogati per ottenerne un quadro geopolitico globale sempre aggiornato, e in cui l'immagine della guerra diventa asettica, scientifica, statistica, epurata da ogni legame col sangue per divenire informazione pura. Poi visitiamo gli archivi di formazione militare dell'Ecpad (Archivio Militare e Agenzia delle Immagini del Ministero della Difesa Francese), per seguire i corsi di formazione degli allievi video-reporter delle forze armate, cui vengono insegnate avanzate tecniche di semiotica dell'immagine che li addestrino all'interpretazione e alla produzione di immagini fotografiche delle attività belliche. In questi ambienti l'immagine, le immagini, valgono nella loro accezione di "testi", agenti produttori di significati da decrittare e comporre secondo precise regole di grammatica e sintassi squisitamente visuali.

Niente a che vedere con l'idea di un'immagine oggettiva, che ritragga la realtà sensibile per quello che è senza nulla aggiungere. Qui l'immagine si fabbrica, o meglio si "scrive", al pari di un romanzo. Il viaggio nel tempo di D'Anolfi e Parenti termina presso gli archivi della Croce Rossa alla Cineteca Svizzera di Losanna, santuario del ricordo, dove tonnellate di pellicola vanno a terminare la propria esistenza per rimanere a futura memoria. Su infiniti scaffali segnati dal tempo riposano decenni di memoria collettiva impressa su supporto fotosensibile, meticolosamente catalogati e conservati. L'archivio come forma esternalizzata, espansa e non biologica dei ricordi di guerra, è l'altro tema del film, e anche qui D'Anolfi e Parenti fanno baluginare il lumino della questione etico-morale. Il ricordo della guerra, l'idea che se ne potranno fare le generazioni a venire, infatti, dipendono dalle scelte etiche in fatto di immagine che compiamo oggi, da ciò che oggi scegliamo di riprendere, consegnandolo alla futura memoria, o non riprendere, destinandolo al macero dell'oblio, da come scegliamo di riprenderlo, da quanto oggettiva e fedele ai fatti sarà la nostra testimonianza. Scopriamo entrando in questi luoghi con D’Anolfi e Parenti che la rappresentazione filmografica del conflitto si presta a modalità diverse di attribuzione di significato e a tipi differenti di lettura, a seconda dell’uso che se ne deve fare. Quella dei restauratori dell’Istituto Luce è una lettura di tipo filologico e storico, che nel testo visivo cerca informazioni di tipo “filmico” studiandone i modi di ripresa, i cromatismi, le qualità fotochimiche e il tipo dei vari supporti, avendo riguardo di considerare le eventuali relazioni con il quadro storico di riferimento.

Per coloro che operano nell’Unità di crisi del Mistero degli Esteri, invece, il significato delle immagini che testimoniano i più vari tipi di scontri armati è quello di fornire “informazioni”. Rastrellano con minuzia ogni possibile fonte video che porti una testimonianza diretta in questo senso, dai servizi giornalistici a centinaia di filmati di cellulari, per poi minuziosamente studiarli con lo scopo identificarne la dislocazione geografica, per scoprire l’identità e l’orientamento politico-religioso delle milizie implicate, l’etnia dei combattenti, il tipo di armi utilizzate e molte altre informazioni ancora, che possano diventare “dati”, che studiati in modo comparativo, possano fornire delle statistiche che permettano di stilare una mappa geopolitica dei conflitti nel mondo in continuo e frenetico aggiornamento. L’oggetto di visione è il medesimo ma l’attribuzione di significati è cambiata sensibilmente. E così per i militari francesi del corso per video reporter le rappresentazioni visive delle azioni belliche diventano qualcosa di ancora diverso, un testo visivo, una grammatica precisa, una narrazione per immagini in cui è possibile inoculare significati predeterminati e funzionali al “punto di vista” delle forze armate sull’attività militare. Quando poi le immagini di guerra entrano nel reliquiario dell’archivio il tipo di lettura cui le si sottopone è ancora differente, di valore testimoniale, per cui le informazioni che si ricercano nel documento filmico sono gli accadimenti storici, le battaglie, le manovre, di cui sono testimonianza diretta fotograficamente impressa su cellulosa. A questo livello della loro interpretabilità le immagini, e l’azione del collettarle e conservarle, vengono accolte nella loro funzione mnemonica collettiva, di sedimento della storia che resti a testimoniare ciò che è stato, una forma espansa e non biologica del ricordo.

Registrazione audiovisiva, storytelling, rappresentazione infografica. La guerra e le sue molte immagini
 
A confrontarsi sono anche forme diverse di traduzione linguistica dell’evento bellico, modi e linguaggi diversi per rappresentarlo. Il primo livello, il modo più immediato di rappresentare un conflitto, è la sua fissazione (audio)visiva, il catturarne suoni e immagini che si ritrova tanto nelle riprese dei cineoperatori del 1911 che nei filmati in presa diretta realizzati con il cellulare da chi si è trovato coinvolto negli eventi, immagini in presa diretta che nei confronti dell’evento bellico hanno innanzitutto valore documentale, valore di testimonianza diretta. Questa poi si collocherà a gradi diversi di "neutralità" nei confronti dell'oggetto di ripresa, quindi risulterà decisamente più strutturata e meno innocente quella dei cineoperatori del 1911, che dalle inquadrature cercavano comunque di ottenere un effetto celebrativo dell’italica impresa, e molto più “innocenti” e spontanee, non significativamente preorientate, le testimonianze dei cellulari. La prima traduzione dell’evento bellico avviene attraverso il linguaggio dei suoni e delle immagini, che per necessità fisiologica impongono una relazione di partecipazione diretta, di compresenza, rispetto all’evento ritratto per poter essere registrati. Da questa si distingue lo storytelling  studiatamente melodrammatico dei molti servizi telegiornalistici che udiamo come sottofondo nel centro operativo dell’Unità di Crisi. Qui il valore schietto della testimonianza diretta viene decisamente meno in favore di una “narrazione” della guerra, non dunque di una sua “testimonianza”, ordita a distanza di sicurezza dagli eventi e in cui le immagini-testimonianza dei conflitti, garanzia di veridicità del discorso, vengono tagliate e montate in un tessuto narrativo del tutto intenzionale per significazione ultima.

E ancora diversa, a un ulteriore grado di transustanziazione linguistica e astrazione, troviamo la traduzione “infografica” che, sempre in quelle stanze dell’Unità di crisi si fa degli eventi bellici. Qui le molte immagini di guerra non rilevano più per il fatto che testimoniano in sé, né ci si interessa di come organizzarle in una narrazione, ma ci si preoccupa di estrarne “informazioni”. Dalle immagini si cerca di capire la loro provenienza geografica, si cercano indizi che permettano di identificare le forze in campo, di distinguerle per orientamento politico e religioso, tra forze amiche e nemiche, si studia il tipo di armamenti, se ne deducono connivenze e alleanze con altre organizzazioni, si estrapolano, insomma, informazioni che possano essere messe a confronto, valutate nelle loro implicazioni geopolitiche, messe a sistema e infine tradotte in “dati”, dati percentuali, dati di incidenza, tassi di mortalità, percentuali di successo o insuccesso delle azioni, percentuali di presenza di questa o quella organizzazione di questo o quel nemico nei conflitti. E tutto questo verrà poi tradotto nel linguaggio visivo dei grafici e degli istogrammi, persa ogni relazione mimetica con l’evento bellico reale, l’immagine ultima ed astratta della guerra diventa una curva tendenziale tra due assi cartesiani, i morti e le esplosioni diventano aree diversamente colorate e percentuali riportate su una mappa geopolitica del mondo, e anche questa è "un'immagine" della guerra, la sua forma di rappresentazione più astratta e distante dall'oggetto che significa. Ancora diversa, poi, è la narrazione che avviene all’interno dell’archivio, narrazione della memoria, espressa in un diverso codice alfabetico unicamente composto di date, nomi di luoghi, di battaglie, tracce sedimentate di mille memorie individuali, che messe insieme ci restituiscono la mappa cronologica della nostra memoria collettiva.

Visionarietà e coerenza etica

Rispetto a Blu e Spira Mirabilis, se invece vogliamo fare una considerazione generale sul livello visivo, sembra che in questo episodio D’Anolfi e Parenti abbiano un po’ attenuato quella componente “visionaria” e post-industriale, di sensibilità vagamente psichedelica, che sembrava cifra irrinunciabile del loro fare cinema. Attenzione però, non si tratta di una diminuito. Assunto fondamentale della “filosofia di visione” del duo, infatti, è quello che le spettacolarizzazioni e le accentuazioni degli aspetti figurali, grafici, cromatici o pittorici dell’inquadratura non debbano mai essere frutto di un lavoro “di aggiunta” di post produzione, la creazione artificiosa di una qualità che l’immagine naturalmente non avrebbe, ma sempre e solo il risultato di una sensibilità di sguardo che sappia cogliere ed esaltare quelle qualità di colore o composizione che naturalmente sono presenti in quella data immagine. Una possibilità che le strutture e gli ambienti visitati in questo film, uffici, archivi, classi in cui si tiene lezione, offrivano in misura più limitata rispetto alle gallerie milanesi di Blu con le loro illuminazioni elettrificate e cromatiche, o le grandi cave di marmo con i loro crolli spettacolari e le immagini cellulari del microscopio in Spira Mirabilis. Per quanto poi anche in Guerra e Pace non manchino inquadrature in cui si gioca con acuto senso compositivo e geometrizzante con le linee ortogonali dei ripiani degli scaffali negli archivi, con le forme circolari delle bobine di pellicola, o con le molte possibilità di colore offerte dagli apparati dell’Istituto Luce (spettacolarissima la sequenza in cui le immagini sono scomposte nei tre canali Red, Green e Blu). La veste visiva, quindi, è piuttosto l’espressione della coerenza con cui D’Anolfi e Parenti operano rispetto alla propria filosofia di fondo, la loro morale ed etica cinematografica che gli impone di rispettare l’immagine, che non una rinuncia alla componente spettacolare del proprio lavoro. D’altronde era fondamentale, proprio in un film come questo non “tradire” l’immagine in alcun modo, non venire meno alla sua natura morale. La componente visionaria, un visionario d'antan, semmai, qui è affidata ai bellissimi filmati d’epoca, con le loro tonalità diverse e le loro grane d’immagine, ai materiali in 8 e 16 mm coi loro colori lividi o dilavati, alla violenza scioccante di certe immagini di repertorio, che nel testo introiettano una sorta di flusso onirico, di tempo sospeso, fatto per galleggiarci dentro, cui non resta che abbandonarsi senza remore.








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