C’è sempre qualcosa di cupo nel cinema di Saverio Costanzo, delle zone d’ombra o zone morte, zone di morte, in questo caso, di morta: tutto un ecosistema che vibra di crepuscolo (e d’alba: sono intermezzi luminosi, limini di dormiveglia) in cui si consuma l’esistenza dei personaggi. Finalmente l’alba è l’apoteosi di questo ecosistema - apoteosi barocca, carica di materiale audio-video, segni, sagome anarchiche che sembrano straripare dagli argini dell’inquadratura -, vera e propria apologia del cinema e più in generale dell’immaginazione, della necessitata, imperitura narrazione di forme di cui siamo fatti, di cui siamo sfatti, spossati ogni volta le forme svaniscono facendoci affacciare sul gouffre, il vuoto, infinitamente profondo: è quella teoria dell’abisso presente anche nei film di Bonello e Kröger.

Il riscatto di Mimosa non può che avvenire dentro lo spessore opaco del sogno, cubiti e cubiti di immaginazione (pronta a evaporare all'esposizione della luce) che si nutrono di lacerti cinematografici, reminiscenze, deja vu, deja vecu: i melò, il Neorealismo, il cinema delle dive. Da lì, dagli archetipi, sorge il sogno di Mimosa che, passando per Fellini, Antonioni, anche Sorrentino - ad esempio in certe stentoree, posticce apparizioni di tigre -, diviene il film di Costanzo.

Un film che però travalica i referenti: l’immagine deve essere assolutamente moderna, attuale (il faut être absolument moderne): e allora ecco il peplum (post-peplum) abbagliante (nelle sue sfumature di crepuscolo), ma al ritmo di techno (protratto poi, l’incalzare ipnotico dei bassi elettronici, nella notte alla villa dei maggiorenti, nella saison en enfer di una Mimosa, pura, ingenua, in balia della cupidigia di figuri grifagni, di lenoni, bellocci equivoci, e il solo appiglio della guida in questo inferno, Rufus Priori, che però è assente); pseudo-Cleopatra su sfondo desertico (desertificato dall’elettronica), comparse in tonaca, occhiute, combattimenti sanguinosi: probabilmente la sequenza più entusiasmante dell’intera Mostra.

Un vuoto, il deserto, uno spazio in potenza, uno spazio neutro direbbe Barthes, che invita la luce ad accedere nel quadro, ad abbagliare (anzi, ad albeggiare nei suoi gradi ancora smorti), a vivere (ancora legata al buio da cui viene) e morire di forme, anzi essere per morire nelle forme del crepuscolo di Costanzo, in una condizione di luce che è sempre postmortem (e in una circolarità che prevede la tenuità del sorgere), ed è quella del sogno, della dimensione fantasmatica propria del cinema. L’unico paradiso possibile è quello imbastito, imbastardito (di luce e ombra: mistura che allude al limine mortuale) dal dispositivo cinematografico: chi sogna? Il dispositivo sogna.

Quello di Costanzo non è un gioco intellettuale o una prova di virtuosismo: è l’individuazione, per quanto spettrale, di un piano di vertià (o quantomeno di senso) insito nel nostro essere labili, puramente sintomatici (di un’astrazione universale), declinati in una forma finita tra tutte quelle infinite che potrebbero essere: ecco, l’esserci delimitato di quell’essere astratto di cui parla Derrida. Un esserci che tiene conto della fine (e la include in ogni elaborazione semantica, in ogni inquadratura crepuscolare), interrogandosi sull’inizio delle forme, sul perchè abbiano avuto una certa imprimitura, uscite chissà come dal gorgo del Nulla (ma poi: dov’è, cos’è tale nulla che inscrive e insidia le cose? Com’è cominciato?). E allora la risposta è un intermezzo, un sempre, il sempre stato dell’immaginazione, del cinema. Siamo, ci riscattiamo dalla declinazione (e dal declino) delle forme, nell’intervallo eterno dell’immaginazione: eccola, ferina e sontuosa, la tigre.

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