Nella sezione “Orizzonti” è iraniano un film che ruota sulla desolazione del sole, del suolo, sulle suole impolverate che scorrono fuori campo. Le inquadrature precedono gli oggetti, posizionandosi prima, scivolando nelle carrellate laterali, nelle incrinature delle pareti, nudità dei mattoni: che sono d’acqua, che gocciolano dalle mani brune, callose, e cadono sulla terra scura, sulle scarpe, s’asciugano, senza traccia, senza nome; mattoni rossi come il mezzogiorno, come il sangue da versare, che s’è versato, ancora, da generazioni.


L’immagine si definisce lentamente, seguendo di spalle, di lato la macchina da presa i profili di cose e di uomini; e polvere, ovunque, come un sibilo, scricchiolio di passi.
Muti, volti piegati di tre quarti, se ne intravede il dramma dalle nuche di tenebra: che non domandano, che aspettano. Si compiono destini negli occhi. Tra i baffi si insinua il sole.
Magliette, a righe, a tentare un movimento che non viene, che s’arresta sulle tende, pure a righe; bestie da soma, che trascinano carretti e sollevano pietre.

L’occhio di Bashiri è in ritardo sulla disperazione cupa, muta, quasi assente dalla scena, segue senza fretta la scia degli scossoni disperati, dei pugni furenti; si ferma, svelando la meraviglia di un arco lasciato aperto, soglia da cui entra la luce, dalla quale si vede penetrare il vento, riempire il vuoto, averne compassione.
Sebbene il deserto resti, delle schiene piegate, bruciate, dei fazzoletti sulla testa delle donne, dell’infanzia imparentata col sudore. Anche quando non c’è più, quasi, nessuno, mattoni ancora, pietre, elementi su elementi: acqua, terra, fuoco. Ma l’aria manca. Manca quando di più si sente, sotto il nero della dissolvenza, che si respira la violenza del buio, innestato sui titoli di coda.
Un’idea di cinema diveniente sulle azioni, che fisicamente si ferma un poco prima, che lascia un cono d’ombra, uno spazio per dire dove “non sono ancora” le cose.

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