È dagli “Orizzonti” che arrivano ancora una volta, come negli anni passati – al di là di immagini tronfie, altisonanti (il suono, lo stridio dei soldi, delle ricche produzioni) o irretite in narrazioni anodine come quella di Coppola, anche se, a dire la verità, resistono alcune splendide visioni del concorso principale, l’abisso dell’immaginazione: Costanzo, Bonello, Kröger –, alcuni dei film più belli di questa Mostra, a partire dal capolavoro di Shinya Tsukamoto, Shadows of Fire, film di una purezza e di una semplicità disarmante, basculante tra l’espressionismo, l’urlo, l’urto, l’urticante, che era stato già di Tetsuo ed era arrivato fino a Nobi e Zan (immagini affilate, di metallo lacerato, tagliente) e il Neorealismo, la povertà dell’immagine, la frontalità disarmata di un bambino che, finita la guerra, inizia la sua – giocata sulla scorta dell’ingenuità e della pietas -, cerca di interpretare il canovaccio spurio, stracciato della sopravvivenza.

Per arrivare poi – ma passando attraverso alcuni film interessanti come Behind the Mountains di Mohamed Ben Attia (a conferma della qualità del cinema tunisino odierno) o Una sterminata domenica di Parroni (pasoliniano, ruvido, selvaggio) – a quell’oggetto cinematografico delicato, sognante che è L’homme d’argile di Anaïs Tellenne, presentato in “Orizzonti Extra”. Forse uno dei migliori utilizzi del formato 4:3 degli ultimi anni, in funzione della chiusura crepuscolare, malinconica della cornice propria della favola. In effetti il film inizia con un’inquadratura stretta sul disegno di un castello o comunque di una casa patrizia: il tratto e i colori un po’ infantili, la musica lieve, arpeggiata, che ricordano il prologo di un’altra favola, un altro amore mostruoso, impossibile: il capolavoro di Victor Erice, Lo spirito dell’alveare.

Di lì lentamente il piano sequenza sui titoli di testa si allarga facendo emergere la cornice intarsiata entro cui è contenuta l’illustrazione, come antifona di quella poetica del quadro, del rifugio dal mondo, che sembra regolare l’intero film e vede ricorrere di scena in scena dipinti appesi alle pareti, croste d’antenati, clorotiche mutrie imbellettate su sfondo ctonio; poi tolti, traslati e asserragliati in una cucina insieme alla miniatura di un golem in legno e altre chincaglierie ostentate su un canterano, oltre al riquadro del televisore bofonchiante ognora la sigla di una telenovela francese. Del resto la padrona di casa, Garance, che compare all’improvviso in una notte di temporale, è un’artista famosa, che dipinge, scolpisce, installa oggetti come tentativo, si direbbe, sublimazione della solitudine: traslochi, divorzi, morti, a cui lei ha dedicato decine di lacrime, raccolte poi in ampolle e divenute un’installazione d’arte.

Non bastando più la cornice dell’opera, del manufatto, la sua numerabilità, finitudine che tenga a bada l’infinito che essa stessa ha generato (il senso, la vertigine del senso creata dal segno, il campo sfuggente della sensibilità, dell’essere in quanto paesaggio), Garance cerca riparo nei bordi della sua villa, persa ai confini di un villaggio. Lì ci vive Raphaël insieme a sua madre: guardiano di complessione tozza, corpulenta, eppure di fragilità argillosa, che impiega il suo tempo in copule campestri con la postina del paese, nella caccia alle talpe e soprattutto suonando la cornamusa, la notte, quando le note mistiche dello strumento rimbombano nella cassa armonica del film. La colonna sonora (straordinaria) è del gruppo Terra Gallica: danze di stampo celtico, ballate, melopee di un rito, di quel mito millenario e ancestrale che è l’amore.