«Molti si rifiutano di credere che l’aldilà non è altro che un freddo infinito vuoto, ma io lo accetto insieme alla libertà che deriva nel riconoscere tale verità.» Il killer di Fincher si pone riflessioni metafisiche perché condannato a vivere un’esistenza liminare, caratterizzata da scetticismo (che esclude la verità assoluta ma non rinuncia alla dialettica), da non scambiare per cinismo (che nega qualsiasi valore e forma di alterità).

Non si considera un uomo eccezionale ma certamente ha una sua singolare identità, non crede nella giustizia (umana o divina) o nel karma ma decide della propria vita e di quella degli altri in maniera lapidaria. Il suo sguardo è attento ai dettagli e i gesti si reiterano meticolosamente, qualcuno nella folla potrà riconoscere il suo look da turista apolide ma nessuno lo distinguerà al punto da ricordarne i connotati. Da sempre non gli frega un cazzo di alcun essere umano perché la totale assenza di empatia rende efficace ed impeccabile il suo lavoro.  

Eppure in questa perfetta e sistemica modalità di pensiero/esecuzione subentra improvvisamente un errore di mira, una distrazione, uno scherzo della sorte che costringe il professionista della morte a ri-vedere e a ri-calcolare tempi e azioni. Per il regista di The Game (uno dei suoi film più teorici e meno celebrati), ogni comportamento rituale e programmatico, che rivela la mania del controllo in una società (ir)razionale, è destinato prima o poi a fallire per la violenta i(nte)rruzione del Caso (anagramma di Caos) che ri-colloca le pedine del “gioco” come in una scacchiera di bergmaniana memoria.

The Game e The Killer (titoli che si im-pongono come definitivi) mostrano la necessità di una struttura e di un obiettivo per (soprav)vivere. Ripetizione e movimento sono le condizioni che consentono di giocare/partecipare, la narrazione procede per capitoli/tappe di un viaggio/percorso, anche temporale (dall’alba di Parigi al crepuscolo della Repubblica Dominicana): ogni fase ha un bersaglio/target che va dalla commissione al committente. Oggetto e soggetto si rincorrono e si confondono in un processo di incessante reificazione in cui il trasporto e lo spostamento di persone (Hertz) e merci (Amazon) tendono a coincidere.

Louis Althusser, forse il più autorevole filosofo del marxismo strutturale, sottolineava: «il materialista è un uomo che prende un treno in corsa (il mondo, la storia, la sua vita), ma senza sapere da dove viene, né dove va.» Fincher continua, sotto le mentite spoglie di un cineasta al servizio dello streaming di Netflix e con le “strutture” di un prodotto audiovisivo di puro e semplice entertainment, a mettere in scena il darwinismo sociale e la disposizione “capitale” delle (ir)realtà politiche in cui agiamo sempre più sotto la nostra soglia di percezione (sub-coscienza) grazie alla con-versione digitale.

La fine del killer’s game esprime la narcosi/necrosi dell’uomo comune: «il bisogno di sentirsi sicuri è un terreno scivoloso, il destino è un placebo, l’unico percorso della vita è quello dietro di te.» Ormai il battito cardiaco comincia a scendere come pure l’ansia del “lavoro usato” (How Soon Is Now? cantano The Smiths) e la memoria (storica ed etica) è sempre più nebulosa, non c’è più niente da dire. Del resto la prima regola del Fight Club era: non si parla del Fight Club.

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