Per giustapposizione rapsodica, la resistenza della realtà nel sogno, e viceversa, colta nella fluttuazione delle immagini, il cui anelito a spostarsi nell’orizzonte del visibile dà alla percezione di chi guarda il disorientamento dell’ombra; restando, questo approdare dell’occhio autoriale, sulla traccia di qualcosa che non c’è e che è, forse, ricordo o desiderio, immaginazione: oppure possibilità ricreata, attualizzata nel sogno appunto, nella fuga che da esso ha origine; e questa spinta evocativa, significante con la quale l’obiettivo carica di forza lo spazio del campo vuol dire, proprio, esistere ancora, esistere di più. È frammento, infatti, un istante del finale di Spaccapietre, stacco – nodo che si slaccia fra le mani, nella corsa, nel turbamento della sera, covoni, un luccichio in fondo – , per un momento: ricucendo lo spazio, dita nelle dita. Ed è questo salto dell’occhio-mente di Antò ad allargare la visione, il limen del mondo percepito, percettivo; noumeno già insito nel movimento delle scene dal basso, partendo dalla nuca all’ingiù, sul letto, anticipazione di un’acquisizione (spoliazione) straziante del vivere, intesa come conoscenza, focalizzazione sulle cose, coscienza: sono questi i presupposti del fare cinema di Gianluca e Massimiliano De Serio, i quali mettono in scena tutto uno scorrere sotterraneo, ai margini della civiltà, al limite della quale già in Sette opere di misericordia si compiva la grazia della vicinanza umana, proprio laddove la disumanizzazione dell’umano, la riduzione a bestia, a cosa, lascia, ancora, uno spiraglio per la vita.


Vestire gli ignudi, idea latente portata qui, in Spaccapietre, dal precedente film, è il correlativo oggettivo al contrario del denudamento della persona: stracci bagnati, violentati dal fiotto dell’acqua, pezzo a pezzo, scivolati addosso, come altra pelle scuoiata – della donna, ubbidiente, animale scarnificato tra le budella contorte, impastate nel sangue scuro. La pìetas della scena di Luminita che, in Sette opere di misericordia, “vestiva” con un paravento l’uomo malato in ospedale, giunto quasi al termine della sua esistenza, adesso si inverte nella violenza di svestire ancora, di più, sottrarre quel poco che si ha: stracci, pelle, cornee. Ma questa sistematica messa in scena del denudamento di quello che resta, tuttavia, umano, soltanto e per questo fortemente umano, dà senso ulteriore a questo capovolgimento del campo visivo che giustifica la scelta dei fratelli De Serio di insistere sul tòpos dell’occhio: ferito, palla di vetro, dunque specchio, sede dell’immaginario, dell’immaginabile, di una promessa che sconfina in dimensioni diverse rispetto al reale; occhio che non può vedere completamente se non nell'estensione dell’occhio di un bambino, che vuole fare l’archeologo, che percorre le strade, vicolo per vicolo, al buio, attraverso un obiettivo, fino all’ultima corsa, “riper-corsa” poi, come elastico arrivato di rimbalzo prima dei titoli di coda. Ultimo segnale di compassione, rigurgito di grilli tra gli affanni del grano, in un’altra “corsa”, corrispondenza luminosa questa volta, dopo troppa e insostenibile devastazione.

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