Il sol dell'avvenire è la conferma che Moretti si muove con sicurezza in questo tipo di cinema, divenuto tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, cinema propriamente morettiano, qualcosa come un archetipo nel panorama cinematografico contemporaneo, che mescola il grottesco, l'onirico (secondo modalità facilmente intelliggibili), l'ironico (e l'autoironico: denudamento ludico dei vezzi e delle nevrosi di Apicella, ora Giovanni), il drammatico, con venature malinconiche (denudamento lirico dei vezzi e delle nevrosi).

La novità stava in film come La stanza del figlio in cui Moretti, cercando di rinnovarsi, di uscire da certi meccanismi collaudati, proprio dai crismi di quello che si era configurato come il genere-Moretti, intraprendeva la strada del film drammatico anche secondo formule classiche (poi replicate con qualche variazione in Mia madre e Tre piani, film tra l'altro molto belli, sopratutto il secondo); o nella scelta di concentrasi su personaggi eminenti, preminenti della storia: Berlusconi e il Papa.

In mezzo c'è stato il diarismo di Caro diario e Aprile, una sorta di commessura tra la prima fase e la svolta "drammatica". Buon cinema, certo - con le sue discontinuità, i suoi difetti, lambendo a volte certa retorica, cosa che prima era scongiurata dal precipitato comico, commedico che avvolgeva ogni retorica o moralismo, vanificandoli - ma non paragonabile a capolavori come Ecce Bombo, Sogni d'oro, Bianca, La messa è finita, Palombella rossa. Prima ancora c'erano stati gli incunaboli straordinari di Come parli frate e Io sono un autarchico che, uscendo polemicamente dalla tradizione della commedia all'italiana, mostravano già le faglie e le contraddizioni tragicomiche del soggetto postmoderno.

Ora Moretti, dopo più di trent'anni di "sperimentazione", di variazione sul tema, torna alla formula che un tempo maneggiava a perfezione, quella delle origini commedico-onirico-drammatiche, firmando il suo ennesimo e - si direbbe testamentario - capolavoro, in cui si mischiano, lo si è detto e scritto in abbondanza, Allen e Fellini, il circo, il cinema, il sempiterno comunismo, il sostrato collettivo e quello individuale e sentimentale del protagonista, alle prese ora con i traumi della fine: la fine di un film da fare, da rifare, che si ha il coraggio di rifare invertendone il segno; e soprattutto la fine di un rapporto di coppia, lo stesso che in Bianca era scongiurato e poi punito con l'omicidio e qui viene introiettato con un che di ingenuità (Giovanni sembra un bambino che non capisce, che ha bisogno gli si spieghino le cose, i motivi basilari, le dinamiche della coppia e della separazione) e diviene ragione di un cambiamento radicale, proprio nelle questioni esistenziali cioè mitopoietiche, cinematografiche.

Ma non è affatto un parlarsi addosso: non è fare sempre lo stesso film (che in questo caso sarebbe "tornare a fere gli stessi film di un tempo"), se no dovremmo muovere un'accusa simile a molti tra gli autori più importanti della storia. Si tratta di riproporre e rinnovare un'estetica che era stata cruciale negli anni Ottanta, ecco era stata "esatta" - entro il repertorio di approssimazioni endemiche ed evanescenze che è sempre il cinema - e lo è ancora oggi con la sua dialettica, i suoi meccanismi narrativi, le sue tipiche ellissi che ne facevano e ne fanno sogno, ne fanno immaginazione, "scrittura", cioè qualcosa che emenda la realtà. Insomma c'è ancora posto per Moretti nel contemporaneo così come c'era ancora posto per Fellini all'inizio degli anni Novanta: per i sognatori, i guardinghi solipsisti, gli adulatori della luna. O per l'Antonioni che sembrava essere arrivato fuori tempo massimo con Al di là delle nuvole e invece continuava a scolpire il tempo e dentro il tempo le anime e i corpi.

Ma all'interno di un tutto che tiene ed è eccezionale, c'è qualcosa che stona nel Sol dell'avvennire. Questo qualcosa che nella logica comune sarebbe da imputare alla stanchezza di Nanni Moretti, a un affievolimento (se non annullamento) della sua destrezza d'istrione, dovuta al passare del tempo, io lo chiamo solecismo (prendendolo in prestito da Walter Siti). Il solecismo è un'anomalia, un'increspatura linguistica, un particolare stridore del segno che, solo, invera l'opera e, per mezzo dell'opera, verifica il mondo nella sua ir-realtà. È una stranezza della scrittura, nella scrittura, in quanto sintomo dell'enigma del mondo; un segno anomalo che funge da tramplino per un salto al di là della natura, del naturale. Si tratta, in questo caso, della recitazione e del dettato, proprio della prosodia di Moretti che sono stanchi, affettati: sembrano essere fuori dall'organicità, naturalità del film, dai meccanismi di naturale svolgimento della storia, e in questo senso allora sollevano il film dalla stereotipia della percezione.

Il tempo è passato, è scorso, così Giovanni appare come un Frankenskein, una versione rediviva, un clone incagliato di Michele Apicella, e in quanto tale ha perso quella fluidità e quell'autenticità dei gesti che prima lo integravano perfettamente al tessuto, alla continuità scorrevole del film. Quello che di Michele resiste in Giovanni è una scoria, una memoria trapiantata, robotica che si muove e parla meccanicamente. Insomma, che Giovanni sia eco rauca, robotica o spettro di Michele - magari un fantasma bressoniano: un attore che ha neutralizzato la sua espressività a beneficio di quella della materia cinematografica - ecco che la zona in cui si muove questo simulacro-Giovanni, quest'entità spuria, è quella al di qua del film, sul set del Sol dell'avvenire, anzi sul set del set, in una zona di limbo, tra le scenografie delle scenografie - e poi appena dentro il film, tra le scenografie, le stanze posticce del teatro di posa - e la realtà del film, dei film. Ed è da lì, in quella distanza, da quell'eco rauca che è la sua voce, che vi partecipa e che invera il film e la realtà.

Che è la distanza rispetto agli altri personaggi (interpretati di contro e congruentemente da attori di grande bravura, a cominciare da Silvio Orlando per arrivare a Marcherita Buy, passando per Barbora Bolulova) e alle varie situazioni in cui Giovanni compare, come uno spetro, magari alle spalle delle figure, e da lì, da quel "fuori dal film", suggerisce battute, trepida, inventa momenti di enorme e autentica poesia, come quando è nel traffico, in un altro tempo (probabilmente gli anni Ottanta), e si intromette nelle discussioni tra i giovani amanti mentre va La canzone dell'amore perduto di De Andrè: una delle sequenze più belle e struggenti non solo del cinema di Moretti, ma di tutto il cinema recente.

C'è questo struggimento inalienabile di fronte al Sol dell'avvenire, questo sentimento del tempo: il senso di quello che fu il cinema di Moretti (ed è, e sarà, illuminato dal sol dell'avvenire) e noi con lui in quel tempo, tra quelle automobili squadrate, dalle cui radio arriva la voce di Tenco o Battiato; noi ancora sognanti, entusiasti a quel tempo, e di nuovo vivi e liberi nel finale che ci ricongiunge ai fantasmi arrivati dal passato, ci ricongiunge a quello che eravamo, mentre facevamo la cosa più importante e autentica si potesse fare allora: guardare un film, esserne in qualche modo parte, inscriversi nell'enorme affresco che è il mondo. Ed ecco così il preside della scuola Marilyn Monroe, la giornalista schiaffeggiata da Michele, la malinconica Olga, l'allenatore di pallannuoto che grida ossesso "marca Budavari". Alla fine Il sol dell'avvenire sembra esistere nell'eco eterna del nostro sentimento.

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