Tra i tanti, meritevoli film che il Bari International Gender Film Festival ha selezionato dai cartelloni dei principali festival internazionali e portato all’attenzione del pubblico italiano non poteva certo mancare il vincitore del Teddy Award, uno dei più importanti riconoscimenti europei destinati al cinema gay-lesbo-bisex-trans-queer-intersexual. Ovvero Futur Drei (No Hard Feelings nel titolo internazionale), indicato dalla giuria specializzata dell’ultima Berlinale come vincitore del premio riservato ai lungometraggi incentrati sulle predette materie che fu già di registi del calibro di Pedro Almodovar, Derek Jarman, François Ozon, Toddy Haynes.

Autore ne è un regista tedesco-iraniano al suo debutto sul grande schermo, Faraz Shariat, immigrato di seconda generazione che per esordire in campo cinematografico ha scelto di raccontare un’intensa storia di integrazione e di ricerca identitaria in gran parte basata su esperienze di prima mano, personali. Un racconto certamente audace e necessario, se si considera che non sono molti i titoli che si occupano di socializzazione sia da un punto di vista multiculturale che sessuale.  

Considerata la sua capacità di drammatizzare efficacemente la sovrapposizione e l’interconnessione tra omofobia e xenofobia – un binomio tematico che come già detto non gode certo di ampia trattazione in ambito cinematografico – No Hard feelings potrebbe essere annoverato tra i film esemplari sull’intersezionalità, la teoria che esamina l’intersezione tra forme diverse di discriminazione e i suoi effetti sulle disuguaglianze sociali. Parvis, il protagonista, è doppiamente (visto come) diverso, doppiamente stigmatizzato e rifiutato, sia per il suo orientamento sessuale che per la sua identità etnica.

A questo si aggiunge un’ulteriore forma di mortificazione che il giovane tedesco di origini iraniane è costretto a vivere, seppure indirettamente: la dolorosa partecipazione emotiva alle traversie dei richiedenti asilo per i quali è costretto a fare da interprete nell’ambito del servizio civile che gli è stato comminato per un piccolo furto. Ed è evidente, palpabile, il fatto che Shariat parta da un’esperienza autobiografica, che per il suo debutto abbia scelto di parlare di cose che ha vissuto sulla sua pelle.

Eppure queste importanti questioni – razzismo, omofobia, labilità giuridico-sociale derivante dallo status di immigrato – non prendono mai il sopravvento sull’osservazione-descrizione umana e sentimentale dei personaggi, sulla fiducia nella loro capacità d’azione, di reazione, al giogo opprimente del giudizio e dell’emarginazione.

È in questa capacità di non scivolare nello stereotipo, nella semplificazione, nel vittimismo, ma al contrario di preservare la splendida complessità ed elusività dell’agire umano, della capacità dell’uomo di resistere a definizioni e oppressioni, che risiede una delle principali qualità del film, non altrettanto dirompente ed efficace sul piano del linguaggio squisitamente cinematografico.

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