Alla precarietà dell’esistente, ai colpi duri della storia che mescola le carte, disperde opportunità ed esistenze sul piano privato e collettivo, all’urlo sommesso degli ultimi che sopravvivono alle bombe del quotidiano e di una guerra «maledetta» Aki Kaurismäki di Foglie al vento oppone il codice delle inquadrature asettiche, asciutte, essenziali, lineari persino nella tavolozza dei colori utilizzata, che sparge di arancione e di blu quello che sembra il canovaccio dell’azione, elementare, marionettistica quasi nelle posture scelte per gli attori, nel loro porsi in modo statico davanti all’obiettivo spesso frontale, rigido, come se ci mettesse tutti – ed ognuno nella propria solitudine – davanti ad un dipinto d’altri tempi: tempi che sarebbero facilmente collocabili al di fuori da ogni cornice se non ci fosse la voce proveniente dalla radio a dirci che invece il tempo è qui, è distruzione e morte, strage di innocenti, l’Ucraina dei civili massacrati; se non fosse che questo tempo arriva come da lontano a fare da sfondo alla guerra del vivere o, meglio, del non smettere di arrendersi alla non vita, rimandando un po’ più in là l’opportunità di sperare ancora.

A dirigere i fili di questa umanità derelitta è una casualità potente: bigliettini persi, spazzati via dal vento come foglie secche; arbitrio dell’assurdo, morte reiterata ogni qualvolta si avverta la necessità di spingere un po’ di più verso la negazione della vita. Parallelamente, discreto, fragile come vetro l’amore, unica via di salvezza che tuttavia è costellata di ostacoli, incomprensioni, impedimenti sociali. Un amore diverso, divergente, sepolto dal dramma del lavoro, della sua perdita, dall’incapacità di comunicare il proprio voler essere con l’altro/a e di svelare a se stessi il punto di contatto con la propria dimensione più profonda, con la sensazione di trovarsi continuamente in balia di un destino non riconosciuto come proprio.

La rassegna di profonda umanità colpita dalla violenza del caso di Kaurismäki, così disperatamente autentica nel mostrarsi ai limiti del vivibile nonché scossa dalle beffe della storia riassume già nello sguardo apparentemente distaccato della macchina da presa – nel suo girare asciutto, essenziale, meccanico – le coordinate di un linguaggio-cinema assolutamente originale, deformante nella sua modalità di offrire visioni per sottrazione, come per mancanza, mimando come dall’interno l’oggetto catturato dall’obiettivo: che è quasi smontato, fatto a pezzi, tenuto lì a mostrare una perdita, lo spreco in atto di due vite marginali che richiamano i drammi e le solitudini di buona parte della filmografia del regista finlandese.  Se penso, per citarne qualcuno, a film come Vita da bohème (1992), Tatiana (1994), L’uomo senza passato (2002) ma anche a Miracolo a Le Havre (2011) e a L’altro volto della speranza (2017), il tema della fragilità dell’esistenza, della subordinazione al determinismo degli eventi è tipico del racconto rapsodico che il regista fa attraverso le immagini, spogliate programmaticamente di ogni orpello o particolare superfluo.

La poetica dei vinti, degli stranieri non solo in patria altrui ma anche nella propria è una costante nell’opera del regista finlandese il quale rende visibile, mediante un processo sistematico di spoliazione delle scene che però nulla toglie alla poesia dell’immagine, di certi momenti di lucida e ironica e desolata bellezza, la pregnanza e la tenerezza del caos, incurante del cammino da equilibristi che le donne e gli uomini percorrono soltanto per avere una speranza d’essere felici, di occupare un proprio posto nella moltitudine di potenzialità incontrate, sprecate, perse.

Così la miriade di citazioni musicali, dalla versione di Olavi Virta di Les feuilles mortes all’esibizione, all’interno del film, delle Maustetytöt con la leggerezza del ritmo e dei toni ballabili di Syntynyt che spiazza per la durezza del testo, per la tristezza dei significati; i frequenti riferimenti alla storia del cinema da Bresson, a Ozu, a Chaplin ad intessere le scene fino alla visione di Ansa e Holappa del film I morti non muoiono di Jim Jarmush sono le vie nelle quali cercare di iscrivere quest’ultimo film di Kaurismäki  che sembra una luce nel buio, l’ennesima conferma che è l’arte, col suo proprio linguaggio, il cinema con le sue modalità di reinvenzione del reale a rispondere al bisogno fin troppo umano di autodeterminazione, persino nella freddezza o nell’impotenza dei sentimenti che non sanno di sentire, delle volontà che non sanno di volere ma, nonostante tutto, restano: «Il tuo amore è così freddo, freddo come l’inverno e il ghiaccio. Il cuore tuo non riesce mai a sentire il calore di un fuoco che scalda. Solo l’autunno fiorisce nel tuo cuore come se i fiori della Terra fossero morti. Nessun barlume di passione può dare chi ha conosciuto solo gelido amore».

La scrittura di Kaurismaki destruttura, scompone, contrappone tragedia a commedia, aggiungendo punte di humor dove si manifesta il dramma di un’infelicità connaturata al proprio essere fatti di carne e sangue in mezzo a tanta miseria, più semplicemente, al proprio restare umani: il rigore stilistico, il paradigma dell’essenzialità che domina le scene rispondono all’esigenza di creare un distanziamento dei personaggi dalla vita stessa, come nel tentativo di osservarla fuggire, trascinando con sé desideri e paure.

Ma «…andiamo al cinema?»: è la rivendicazione di una possibilità di esistenza o di sognarla come in Tempi moderni di Chaplin, fosse anche dispersa e dimenticata come foglie sparse dal vento, che non muoiono nella loro resistenza fatta di aria e di polvere.

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