Non tanto lo scrittore, categoria troppo circoscritta, ormai una specie di mestiere oggi, quando ci si intrattiene intorno a bagatelle in estasi da paratassi (perchè la coordinazione e la subordinazione si sono perse tra le deiezioni dell'ultra-contemporaneo), da vezzi, lemmi di plastica, con le zazzere artatamente scompigliate di spume e le barbe azzimate, profumate; quanto l'essere, nudo, che accede a un altro livello, un'altra dimensione, quella della comprensione «del linguaggio dei fiori e delle cose mute», che è nella Benedizione baudelairiana scrutata da Martin Eden all'inizio del film, così attratto da questo affastellamento di mistero che è il libro, quando ancora era uno spirito vergine, rozzo ma già vorace di poesia, cioè di quel significato latente, quel manto di silenzio e di segno che solo dà senso alle cose.

Ecco, questo, non l'altro, è il centro del capolavoro di Pietro Marcello: il poeta (non solo colui che fa poesia ma più in generale colui che ha a che fare con la poesia), il poeta nel tempo, ancora in un galleggiamento immemoriale, che lo porta negli anni del boom - da dove all'improvviso vede quello che era stato, passeggiare su un marciapiede - così come indietro, agli anni Dieci, prima della guerra. Un rutilare nel tempo simile a quello dei Canti Orfici che non a caso compaiono "in un momento", nell'edizione Ravagli del 1914, regalati a Martin dal mentore Russ Brissenden.

Ma non si tratta di un'elusione della Storia, anzi questa, in forza della scrittura poetica di Marcello, prende senso una volta per tutte, tra socialismo e individualismo "angelico", illuminata dall'impronta del Segno, della parola, dell'amore (che sono un'unica cosa), ché, sembrerebbe, la parola amore esiste. A un tratto Martin dice che il mondo è una prigione, ma che può diventare qualcosa come un eden se si possiede la chiave per scardinarla questa prigione, e che questa chiave è l'amore, cioè la parola, il segno-cinema in quanto luce che rischiara le tenebre e la vile materia delle cose.

Ma il processo (di scoperta, di illuminazione delle cose, che è scoperta e illuminazione di sé, di un sé galleggiante nell'immemore) è un processo doloroso, lancinante, è la benedizione di sentire il mondo, di sentirne proprio il vero (cioè immaginato, sempre immaginato) senso, e allo stesso tempo la maledizione di sentirne il peso insoffribile; e Marcello lo mostra nell'incedere di Bach, in un'apnea piena di buchi di sceneggiatura (in cui inserirsi e immaginare condotti dalla verità delle immagini) nella seconda parte del film che sembra come trasvolare, sorvolare sul concetto di linearità narrativa: un'ora di nodo in gola mentre Martin si consuma, schiacciato dalle cose, dalle morti, dall'amore che ritorna, dal grido urtante degli scorci, tra l'incomprensione, la iattanza di tutti (senza più neppure Brissenden a bestemmiare e smagare), divenuto grande scrittore e coscienza errante, disperata, per ri-divenire immagine, verso stagliato nel tempo.

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