Il mito come grande contenitore narrativo-espositivo, il divino neoplatonico e l’anima mundi, identità e sessualità, natura e città, la ricerca e la definizione di una propria voce, dell’articolazione del proprio linguaggio: sul piano tematico la continuità tra Dei, suo primo film di finzione, e Dentro di te c’è la terra, ultima opera audiovisiva non fiction del poliedrico artista pugliese Cosimo Terlizzi, presentata nella sezione Onde del 37esimo TFF, appare evidente.

Nell’incipit stesso di questo diario visivo, fatto di frammenti filmati del suo recente vissuto, la parola dei fa capolino – probabilmente non a caso – sulla copertina di un libro (A tavola con gli dei, Stefania Barzini, Guido Tommasi Editore, 2006), un ricettario sulla cucina dell’arcipelago delle Eolie di cui viene letto un estratto dedicato ad Alicudi, isola che assieme a Milano, Shangai, la Svizzera o Carovigno, ha rappresentato uno dei principali approdi, fisici e spirituali, toccati dal regista negli ultimi sei anni. Sogni da preservare, punti d’arrivo e di partenza, a seconda di come li si voglia guardare, che in virtù della loro significanza trovano spazio e perciò possibilità di ri-esplorazione in questo denso registro personale. E gli dei e il mito tornano ancora diverse volte nel corso del racconto, dalla ninfa Eco a Narciso, da Eolo ad Icaro, da Teseo a Dedalo fino al Minotauro, tutti portatori di un corredo allegorico-simbolico molto caro a Terlizzi.

Eppure se si guarda allo stile e alle modalità del racconto come fondati indicatori delle più profonde intenzioni e attenzioni dell’autore, non si può non segnalare il solco che divide i due testi. Lì dove Dei può dirsi per molti versi un faticoso confronto con le articolate e costrittive strutture della produzione cinematografica, una prosa “provata”, Dentro di te c’è la terra rappresenta per Terlizzi una liberazione poetica, un soffio di sospirata libertà.  
Una libertà espressiva che è qui totale, segnata com’è dalla riduzione all’osso di qualsivoglia intervento estetico-drammaturgico sul materiale raccolto, dai titoli di testa e di coda scritti a mano, a penna su un foglio, alla postproduzione fotografica e sonora, volutamente assente, a differenza di quanto avviene ad esempio ne L’uomo doppio (2012), che insieme a Folder (2010) e a Dentro di te c’è la terra forma una ideale trilogia di diari-documentari sulla multiformità dell’uomo contemporaneo.
Da sempre Terlizzi pensa la realtà – come lui stesso precisa nelle note di regia del film – come una “drammaturgia mobile”, un’enorme distesa di “segnali vivi” da cui attingere per riconoscere doppiezze e alterità dell’ego, scoprire e dimenticare se stessi e il mondo, fare di queste energie, osservazioni, umori, una traccia filmica (ma anche, nel suo caso, fotografica, scultorea, performativa).

È un’operazione di continua “trascrizione” e “codificazione” (per usare ancora termini scelti dal regista stesso) di questi segnali nell’immediatezza della loro (ri)presa diretta e nella sistematizzazione, consapevolmente arbitraria e provvisoria, del montaggio. Ecco perché dopo l’esperienza di Dei – con il suo soggetto scritto, i suoi ciack, le sue correzioni di suono, colore, interpretazione – Terlizzi ha sentito l’esigenza di tornare ad una composizione in fieri, impressionistica (non a caso in alcune interviste usa ripetutamente il termine “en plein air” per descrivere questo suo ultimo lavoro). In Dentro di te c’è la terra l’autore può dare libero spazio alla pulsante eterogeneità della materia viva che ha carpito al flusso irrefrenabile del reale, senza necessità di doverla ricreare in laboratorio attraverso la messa in scena e senza quei necessari compromessi, a tratti potenzialmente “mortificanti”, che appartengono per forza di cose alle logiche del mercato cinetelevisivo.

Ne deriva una summa ideale della sua poetica e dei temi a lui cari (oltre a quelli già citati nell’incipit di questo scritto, possiamo citare l’amore per gli animali che ritroviamo ne La benedizione degli animali, ma anche il meccanismo autoreferenziale e narcisistico dei social), visti nell’intimità e nella verità del loro esserci nella vita quotidiana di Cosimo, nei suoi continui spostamenti, nelle sue relazioni – con il compagno Damien, gli amici, gli animali, le città, la natura – nelle sue riflessioni.
Attraverso il mito, tentando di decifrare la voce degli dei e della natura, Terlizzi continua a cercare la sua strada nel labirinto dell’esistenza umana, tra visibile e invisibile (un “gioco” difficile e potenzialmente mortale, come insegna Westworld, per esempio, in cui la figura del labirinto è appunto centrale). E nel farlo non disdegna segnale o tradizione alcuna, orientale (le indicazioni per La Mecca, l’islamismo, le traduzioni di aforismi dall’arabo) o occidentale (la mitologia greca, la filosofia platonica), naturale o artificiale, botanico/zoologico o umano.

“C’è la terra” dentro di lui, terra fertile sempre pronta a germinare.

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