Quando il teatro (o il cinema, aggiungiamo noi) si disinteressa della mimesi, della drammaturgia o della spettacolarizzazione, ha l’occasione di fare qualcosa di miracoloso: disvelare, far emergere l’aletheia delle cose. Così la pensavano Grotowski o Artaud, ad esempio, il quale per tutta la sua vita ha più volte sostenuto, con forza, la necessità di «ignorare la messa in scena» e di “sopprimere” il «lato strettamente spettacolare dello spettacolo». 

Cinque uomini. Un diario aldilà della scena, documentario di Cosimo Terlizzi presentato in anteprima al Torino Film Festival 2022 e poi a gennaio di quest’anno al Trieste Film Festival, fa esattamente questo: ci mostra il fuori-campo di un’opera teatrale e della performance attoriale; non quanto si vede sul palco, dunque, ma ciò che avviene nelle sue adiacenze, il retro-scena inaccessibile e inespresso, il sommerso dietro le quinte, dentro l’attore.

Quel che vediamo è ciò che il regista ha selezionato e montato tra i filmati girati in forma amatoriale dall’attore Antonio Buil durante la tournée dello spettacolo teatrale Cinq Hommes, portata avanti nel 2008 dalla sua compagnia, la Compagnie du Passage. Un materiale eterogeneo, indefinito, sconnesso, a cui Terlizzi era stato invitato a metter mano dal direttore della compagnia, Robert Bouvier, con l’augurio che da quel videodiario irriflesso potesse nascerne qualcosa di più concertato, organico.  

Qui lo spettacolo portato in scena da Antonio assieme ai suoi amici e colleghi (Dorin Dragos, Abder Ouldhaddi, Boubacar Samb e Bartek Sozanski) quasi non si vede, a parte piccoli frammenti, e gran parte dell’azione si svolge nei camerini, un non luogo, come lo definisce la voce narrante, uno spazio di passaggio, o meglio di passaggi, di attraversamenti e metamorfosi, esistente soltanto in funzione del transito, del cambiamento, della precarietà e della inabitabilità. Eppure, allo stesso tempo, un luogo di intimità, di confidenze e confessioni, favorite dallo spazio angusto, dalla promiscuità e dal continuo mettere e dismettere panni e maschere.

Affiora, in tutta la sua poeticità e forza allegorica, la fragilità dell’attore comune, che è materiale (economica, sociale: la vita da operaio del teatro, sempre in tour, repliche su repliche, la dipendenza dal pubblico pagante, la difficoltà di mantenere una famiglia) ma anche ontologica (un attore è tale finché persiste lo statuto di illusione, la sospensione di incredulità: basta un colpo di tosse per rendere di nuovo palese il contesto e togliere verità all’essere attoriale). Ciò che rimane, tolti spettatori e scena, come avrebbe voluto Carmelo Bene, è pura ricerca e tensione, la verità mutevole (ne esistono forse altre forme?) del sentire, delle paure, delle idiosincrasie, dei desideri, dei corpi che fremono, fumano, farneticano, alla ricerca di senso nel caos del divenire.

Cinema di definizione e ri-definizione, di configurazione e ri-configurazione, in cui il totale derivante dal montaggio supera la semplice somma dei singoli elementi, come sempre avviene nelle opere di Terlizzi, da Folder (2010) – che ne è un vero e proprio manifesto – a Dentro di te c’è la terra (2019). Come già avveniva in questo documentario di qualche anno fa, anche qui assistiamo ad una riduzione all’osso di qualsivoglia intervento estetico-drammaturgico sul materiale raccolto. La realtà, del resto, è per il regista pugliese drammaturgia mobile, un’enorme distesa di segnali vivi da cui attingere per riconoscere il proprio io e quello degli altri, scoprire (a volte liberare) se stessi e il mondo, fare di queste energie, osservazioni e umori scie di luce da imprimere in una traccia filmica.

«Doniamo noi stessi ma non sappiamo perché, vero?» dice nel finale Antonio con lo sguardo in camera, abbandonando di colpo la handycam ad un’inquadratura sghemba su un muro. È tempo per l’inchino finale, tempo per accomiatarsi da questo spettacolo irripetibile, improvvisato, sgangherato e misterioso che è la vita.

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