Ynon Kreitz è il CEO della Mattel dal 2018, periodo in cui l’azienda versava in una crisi che pareva irreversibile. Kreitz ha cominciato con un drastico taglio del personale: 2.200 licenziamenti, tra il 2018 ed il 2019. Contemporaneamente, ha definito la sua strategia: intrattenimento globale multimediale. Forte della sua carriera trionfale del mondo dei TV Media (Fox, Endemol), ha creato la Mattel Films, pensando già ad un Mattel Cinematic Universe. Il suo obiettivo? Contrapporre eroi/eroine Mattel, nati giocattolo, a supereroi Disney, nati fumetto.

Scelta geniale, in quanto la tangibilità di un prodotto concepito per la manipolazione – il giocattolo – genera meccanismi di possesso, affettività, emotività più forti del derivato dalla carta stampata. Il rovescio della medaglia starebbe tuttavia proprio nella crisi del giocattolo (Mattel in primis) che per le ultime generazioni, post millennials, ha visto sfumare progressivamente la sua posizione dominante, a vantaggio dei prodotti videoludici. Gli analisti, tuttavia, dicono che Kreitz ha colto nel segno. Dopo anni di discesa inarrestabile, la Mattel ha invertito il trend nel 2021: vendite su del 19%, con il risultato operativo migliore degli ultimi 10 anni. Tutto ciò è propedeutico, se non alla visione, alla comprensione di Barbie. Un successo planetario, forse il successo dell’anno, forse uno dei maggiori successi di tutti i tempi. Un film che tenta di parlare a molteplici target di spettatori, utilizzando sostanzialmente due leve: il valore assoluto della bambola Barbie, ed il suo valore marginale. Per valore assoluto si intende il significato che essa ha assunto nello sviluppo dell’immaginario capitalistico occidentale. Per valore marginale, il significato che riveste, o rivestirebbe, per il singolo spettatore. La relazione dello spettatore con Barbie vive infatti su due livelli, sociale e personale. Barbie è un desiderio (di acquisto, di identificazione), ma anche un affetto (la mia Barbie). Questo vale prevalentemente per le spettatrici di sesso femminile, in modo prevalente per gli over 14. Per gli spettatori di sesso maschile la cosa si complica: Barbie può essere un desiderio (sessuale?), ma anche un riflesso di altrui visioni (la barbie di amiche o parenti): una proiezione.

Difficile che sia un affetto diretto. Inquadrare l’universo degli spettatori secondo la più classica e rischiosa delle dicotomie – maschio vs femmina – appare coerente in relazione all’estrema polarizzazione che il film stesso manifesta, in modo teorico e programmatico. Sin dall’incipit, con la parodia del monolite e degli scimmioni kubrickiani, lo spettatore viene calato in un universo femminile, un gino-verso. Barbieland, un ginoverso di plastica. Un insieme di Barbie, ciascuna con la sua peculiare professione e attitudine, con intorno una pletora di Ken in condizione di assoluto gregariato. Un insieme, e non una società, perché nel worldbuilding degli autori Baumbach-Gerwig sembra assente il presupposto fondante di ogni società: un sistema di regole e valori condivisi. Barbie è un’idea, non un’ideologia. Ogni Barbie ha un ruolo, come da catalogo, e questo ruolo è funzionale al sistema. Tuttavia, ogni Barbie appare chiusa dentro il suo stesso ruolo, una monade che trova la sua ragion d’essere nella funzione – funzione d’uso, marketing docet -, assegnata. Non mancano certo i momenti collettivi, quali l’assemblea gestita dalla Presidente simil Michelle Obama, oppure il ballo stile Babylon . Barbielon, nella casa di Barbie Robbie, ma non pare esistere socialità, un presupposto comune, del valori comuni. Anzi, a ben guardare, l’unico valore comune è il rovesciamento del presupposto per l’esistenza del giocattolo Barbie: Barbieland è una società senza desiderio. Ognuna delle sue abitanti agisce in loop, ripetendo la propria giornata perfetta in eterno, nel migliore dei mondi possibili. Le Barbie sono proiezioni di desideri che non desiderano, direbbe Ghezzi.

Il desiderio in Barbieland è derubricato e riservato ai gregari, ai Ken, che paiono rosi dall’invidia, dalla gelosia, comunque animati da istinti e (bassi?) sentimenti. I Ken non hanno mestiere né professione, sono ”improduttivi”, si struggono per essere guardati dalle Barbie, consapevoli di essere inferiori. Ma questa consapevolezza scaturisce dall’assenza di un ruolo, di una funzione, o dalla presenza degli istinti, dei sentimenti? Quale che sia la risposta, Barbieland tutta appare come una proiezione non di una società, ma di una dicotomia tra classi. Dicotomia che è anche di genere, con in più un tokenismo palese riservato alla rappresentazione di minoranze razziali e lgbtq. Da più parti ci si riferisce a Barbieland come ad una raffigurazione parossistica del matriarcato: nulla di più sbagliato, in Barbieland la maternità è del tutto assente, non c’è alcuna genitorialità possibile dove non c’è genitalità strutturale: la Midge incinta, la storica amica di Barbie, è subito accantonata e classificata come “esperimento weird della Mattel”. Stessa marginalità tocca a Skipper, consanguinea di Barbie. Del resto, recita la voce narrante nella intro, l’avvento della Barbie ha fatto sì che le ragazzine spezzassero le catene del loro immaginario: con la Barbie, si può immaginare di diventare qualcosa di diverso dall’essere mamma. Questa possibilità è un bisogno, o un desiderio?

Il punto da dibattere è se questa Barbieland sia in realtà uno specchio nero, un riflesso rovesciato della realtà del mondo di sopra. degli Stati Uniti, dell’Occidente. Barbieland e mondo di sopra sono comunicanti. La linea di continuità passa da un espediente narrativo cara alla Pixar dell’age d’or: what if Barbies have feelings? In questo caso, che succede se Barbie Robbie comincia a provare dei sentimenti? Succede che i sentimenti – appannaggio dei ceti inferiori in Barbieland – si manifestano come pulsioni. Paure, non desideri. Lo specchio rovesciato del capitalismo ludico libidico. “Avete mai pensato alla morte?”, dice Barbie. Ma è paura di morire, o desiderio di morire? Cupio dissolvi? Dubbio maieutico in ogni caso, che sembra incrinare l’intero estabilishment: basta provare questa paura\desiderio, e si diventa imperfetti, cadenti, come se l’emozione fosse un morbo. La situazione va sanata con l’incursione nel regno della morte, dei mortali. Los Angeles. Il mondo reale, come osservato da molti, è in realtà più plasticoso di Barbieland.

Un lungomare da una parte, il quartier generale della Mattel dall’altra. Precipitata in California, alla ricerca di chi l’ha resa senziente, Barbie prova imbarazzo, dichiara di sentirsi come se avesse coscienza di sé, ma solo in quanto guardata in modo sessualmente aggressivo, libidico-libidinoso, quindi capitalista, da maschi vari. In primis, da un gruppo di operai di cantiere, presumibilmente di ceto umile. La coscienza del sé passa attraverso la percezione  degli altri, di differente classe sociale? E ancora: anche nel mondo reale pulsioni e desideri sono indice di inferiorità gerarchica? Ken, dal canto suo, acquista consapevolezza in quanto soggetto attivo, che guarda piuttosto che essere guardato. Guarda la street life, la pubblicità, i rituali sociali e ci trova il suo eden, cioè la sublimazione dei suoi desideri latenti, grezzi. Con una rapidità di intelletto incoerente con lo sviluppo del suo personaggio, si accorge che un mondo maschio è possibile. Se Ken è un gregario in Barbieland, e si riconosce nella California reale, ergo la California reale è una distopia. Distopia come sinonimo di patriarcato, secondo gli autori. Eppure gli stessi autori sono ben attenti a non raffigurare ideologie, nella loro true California. Keep ideology away from our world, sembrano urlare Gerwig+Baumbach. É noto che l’essere a-ideologico, quindi a-politico, celi un approccio reazionario, ben più che liberal.

Se l’intento è quello di raccontare a tutti gli spettatori che il patriarcato inquina qualsiasi visione di società, di destra e di sinistra, il risultato è comunque maldestro. Il film si incaglia nella rappresentazione faziosa della società reale. Gerwig-Baumbach allora ripiegano su quello che più sopra che si è definito come il valore marginale di Barbie, il suo valore affettivo per chi la possiede. Barbie infatti è stata sciamanicamente istruita a cercare la ragazzina che detiene – possesso – il suo modello, e le ha istillato le sue paure ed i suoi desideri. Si accorge però che non di una ragazzina, ma di una madre si stratta: le ragazzine di oggi, le piccole spettatrici di oggi, sono infatti più avulse dal meccanismo. Ecco quindi stagliarsi, come dea ex machina, una figura di madre. La chiave di volta dell’universo del film è una mamma. Una mamma modernamente intesa, lavoratrice, con una sua precisa funzione (d’uso ?) nell’azienda Mattel, una mamma produttiva. Ma pur sempre una mamma. E’ a questa mamma che si deve la vittoria contro la rivoluzione dei Ken in Barbieland, Ken infatti era tornato di corsa nel suo mondo per istaurare la dittatura del patriarcato, fatta di machismo e testosterone e simboli fallici e cazzeggio, ma anche di hobby, passioni artistiche e tecniche. Una dittatura sarebbe forse improprio, perché il riconoscimento della Kenland si scopre essere rimandato a regolari elezioni democratiche con un solo candidato presidente (!?).

Un mondo sovvertito, a misura di maschio represso, si può allora dire. Alla mamma reale spetta il compito di scuotere dall’imprevisto giogo tutte le Barbie, ripetendo a ciascuna, una per volta, un pistolotto qualunquista sulle difficoltà e le prevaricazioni che le donne hanno subito e subiscono, nei secoli dei secoli. Perché la mamma non parla a tutte le Barbie riunite? Per non insospettire i vari Ken, si può obiettare. La tesi di chi scrive è che lo faccia perché la relazione è affettiva, cioè marginale, cioè one to one, Individuale, individualista. E proprio sull’individualismo che poi Barbie Robbie fa leva, per mandare a monte i piani di dominio dei Ken. I ragazzi sono messi l’uno contro l’altro, un divide et impera che sfrutta i loro lati deboli. Agisce cioè sulle loro pulsioni, i loro istinti, in primis la gelosia. Per tornare al gino-ceo iniziale, bisogna liberarsi degli istinti e dei desideri? Così pare, infatti il Ken sconfitto confessa a Barbie che lui, in fin dei conti, desiderava solo il suo amore.  Barbie lo comprende ma ovviamente non lo condivide: ognuno deve cercare la sua identità in quanto persona, non in quanto relazione, coppia o altro.

Come riconoscimento per i Ken sconfitti, sembra che in Barbieland venga introdotto un sistema di quote azzurre e quote arcobaleno per tendere – all’infinito ? – verso una reale uguaglianza. La cosa in effetti si ingarbuglia, e regge poco senza gli spiegoni che appesantiscono tutta la seconda metà del film. Non bastasse, per procedere al compimento del percorso di formazione della Barbie-Robbie, ecco stagliarsi una nuova dea ex machina, ancora una volta una figura materna. E’ Ruth Handler, la creatrice del giocattolo Barbie, che riconosce di fatto l’avvenuta  emancipazione della Barbie parlandole come parlasse ad una figlia. Un mondo in cui le donne sono salvate dalle madri e non si salvano da sole, a nostro avviso, è un mondo reazionario, conservatore. Un mondo che derubrica il patriacrcato a questione di pulsioni primarie, che sublima l’individualismo e appiattisce le differenze di un approccio ideologico alla questione di genere, ignorando la coscienza sociale e la possibilità della lotta di classe, è un mondo reazionario. Per finire, un mondo in cui Barbie-Robbie-Spartacus (che ha spezzato le catene) viene accolta da una famiglia ed accompagnata, suprema autocoscienza, dal ginecologo, è un mondo in cui dominano genitorialità e genitalità. E’ un mondo reazionario.

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