altNon ho resistito più di un’ora in Darsena per My Love di Kechiche (in concorso): è da un po’ che non sopporto più la stoppa, il ristagno cinematografico dentro i dialoghi serrati; forse è un mio problema, un desiderio di campi lunghi, silenzi, apnee d’opale. Resta il filmare ossessivo (splendido) dei culi, un inno alle natiche che tracimano dai pantaloncini; una certa sensibilità nello scegliere e filmare la bellezza femminile; poi una bellissima sequenza di ballo su musiche dell’Orchestre Nationale De Barbes, sempre fissa sui culi stipati in vestiti estivi.


Salendo in sala stampa, un odore di malaria che arriva dal mare. Dai finestroni la sovrumana spianata d’acqua, le plaghe argentine prima dell’orizzonte indaco. Che poi magari piove. E allora penso a Drift e ai Garçons Sauvage, di cui non posso parlare (per una questione di conflitto di interesse), al senso di perdita che emana dal loro mare, nel tentativo di ritrovarsi, di nuovo in città, con lo sferragliare delle bici e delle metro, o ancora dentro il sogno puramente cinematografico, popolato dai fantasmi schizzanti ovunque il loro sperma sonoro, stellare, nutrimento mai sazio, che sia ingerito con voluttà o un po’ rigurgitato e colante con rivoli lattescenti dagli ossessi di Manuel Billi: Les fantome de la veille.

Ieri i Manetti bros con Ammore e malavita (in concorso), una variazione sul genere Mario Merola, quando era Maffettone e dava appunto maffettoni con mano ferma e cipiglio tetragono: al che uno chiedeva “ma pcchè?”, e lui “pcchè ndringhete ndringhete ndra’, mienzz’o mare ‘nu scoglj c sta”. Raiz ha un che di ipnotico, anche quando si misura con il neomelodico e si rapporta alle altre sagome di plastica, anzi di celluloide, figurine esagerate di un cinema meticcio, popolare, recitato, pantomimato benissimo. Appunto un’amena mistione di generi e pupazzi, sceneggiate e sparatorie, Napoli, Honolulu e uno scugnizzo a New York. Manca La discoteca, ma forse è solo questione di tempo.