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Cinema fluviale, in galleggiamento tra acque, figure, battelli e fantasmi d’amore, come un Atalante alla deriva nel presente della Cina: Crosscurrent (Chang Jiang Tu) è l’opera seconda di Yang Chao, in Concorso alla Berlinale 66, film in sospensione lirica tra tempo e spazio, sospinto sul fiume Yangtze che taglia la Cina dal Tibet sino a Shanghai.


La materia del film è basica per il cinema cinese contemporaneo: l’intreccio di biografie e geografie per una topografia dell’esistere nella storia, che cancella se stessa e i suoi luoghi, la sua memoria. Film liminare, che scorre su una purezza instillata nella scansione mentale in cui si intrattiene, come un atto traslucido che incide una storia d’amore nella dispersione del tempo e dello spazio di due amanti immaginari. Il luogo è una nave che trasporta merci lungo lo Yangtze, spazio vago ereditato dal padre morto, in cui il protagonista Gao Chun si trova sospeso, inseguendo di porto in porto il fantasma dell’amore incarnato in An Lu, una donna che torna e ritorna ogni volta un po’ più giovane. Il corso del fiume sospinge intanto la nave verso il suo estuario, incrocio di correnti per un intreccio di flussi, che contiene tutta la complessità di un presente inafferrabile, contraddetto, intrattenibile. La trama però è offerta da un testo scritto: un vecchio poema ritrovato da Gao Chun tra le cose appartenute al padre, fantasma testuale trascritto in quelle parole, che segue pagina dopo pagina il succedersi dei porti lambiti dal fiume Yangtze. Un flusso in versi che scorre parallelo a quello acquatico del fiume e si offre al protagonista come la trama di una storia d’amore mentale, il sogno in cui riconoscere se stesso e la propria storia nel volto sempre più trasparente di An Lu.

Yang Chao – di cui ricordiamo a Cannes 2004 Passage (Lù chéng), altro film di amanti in transito nella Cina contemporanea – compone Crosscurrent come un poema inciso nella fluidità acquatica del tempo, sfogliato per capitoli che di porto in porto si aprono con i versi di quel testo che mappa il percorso, affidato a immagini che svaporano nei cromatismi un po’ sbiaditi di un filmare che asprira alla lontananza del tempo. Resta soprattutto il discorrere fantasmatico delle relazioni in atto, la scansione eterna delle illusioni identitarie, un po’ come si fosse sospesi tra Tarkovsky e Angelopoulos, in una direzione nettamente opposta, per esempio, alla nettezza della trasparenza di uno Jia Zhang-ke. Un’ombra estetizzante, va detto, persiste: ma sul tutto prevale l’emozione della fluidità, la costanza dell’arrendevolezza allo scorrere interiore del tempo. Di sicuro tra le cose migliori della Berlinale 66.