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  • Nessuno immagina un mondo, o un modo, in cui la passione ardente, il desiderio, il bisogno di farsi uno con l'altro e sentirlo, prima di tutto nella carne, possano smettere di turbarci, infiammarci, di esercitare una forza e un controllo tirannici, magnetizzando così lo sguardo, orientandolo a un unico punto di fuga, verso cui tutto, affetti, pulsioni, violenze, sembrano convergere. E questo punto è la verità (e nudità) del corpo, magro, spento, quasi trasparente, dei carcerati di El Principe; corpi logori, consunti dall'incedere di un tempo sempre uguale, le risse, le lotte interne per il potere, le giornate vuote, il nichilismo della dimensione carceraria arginato dal sentimento gradualmente riacquisito.

  • Nuestro Tiempo è un film a rilascio lento, ritardato, congegno a riverbero, perchè teso tra la dimensione istintuale, animale - tori che si scornano, scorazzano nella prateria, sventrano asini, tra il ronzio delle mosche calate immancabilmente sulle interiora: una rude poesia, una ruvidità dell'immagine evocativa, che è di Reygadas sin da principio del suo cinema - e quella cerebrale, mentre dispiega le dinamiche di una coppia emancipata del nostro tempo.

    È per questo che anche volendolo istintivamente "estrommettere dai confini dell'io" (perchè magari non ti dà emozioni subitanee), poi ritorna, si sedimenta sulla scorta di un repertorio di immagini che prevedono l'estroflettersi del corpo, dell'amplesso, e d'altra parte di una fitta rete di dialoghi intorno al proprio essere nel mondo, tra poesia e praterie, e al proprio essere con l'altro nel mondo, nel tentativo di esorcizzarne la solitudine.

    È un discorso sul sesso, sull'amore (sfere distinte che però possono toccarsi), sul desiderio intrinsecamente legato per Reygadas alla pratica del guardare le cose, evocarle, da parte del poeta, e prima di tutto il corpo dell'amata, desiderata, metterlo in una posizione tale che attraverso gli occhi, attraverso il controllo cupido e incantato degli occhi, se ne possa godere, cioè quel tentativo prometeico di mettere tutto a fuoco, sotto la luce disvelante della macchina da presa, dello sguardo che si nutre di forme, di coreografie, di luce: Post Tenebras Lux.

    Ha ragione Beatrice Fiorentino quando parla di tensione verso il fuori-campo, verso tutto ciò che sfugge alla vigilanza (indice della brama di possesso) da parte di Juan-Reygadas. È quell'ossessione di vedere ciò che costitutivamente è fuori dal campo visivo, è nascosto dalle tenebre; che si tratti degli interstizi di un'automobile in corsa su uno sterrato (e allora la macchina da presa ne riprende da sotto le ruote il percorso nel fango, i sobbalzi, il protendersi verso il tripudio di ciottoli, o, posta sotto il cofano, le vibrazioni del motore, di pistoni e ingranaggi) o di sua moglie, della sua psicologia, che del resto aveva provato a sottrarsi a questa sorveglianza, nascondendo i messaggi ricevuti sul suo telefono da parte dell'amante.

    Il poeta Juan ha l'ossessione, la bramosia di portare tutto alla luce, di appropriarsi del visibile, quel potenziale di forme che sibila al di là del visto e che sa, suona, odora di desiderio; e allora si affida al sorvolo della macchina da presa, vede, immerso nella luce silenziosa, l'eterna schermaglia tra maschi e femmine (chiudendo su tori in lotta): prima tra i bambini asserragliati in un gommone, mentre giocano a spingersi in acqua, poi tra gli adolescenti sdraiati a riva che scoprono lo scarto provocato dal desiderio, tra sessualità e affettività, quando suo figlio mentre fornica con la fidanzata di un suo amico dichiarandosene innamorato, si sente rispondere "facciamolo" e poi impaziente "mettimelo dentro", sullo sfondo arioso, sibilante di una luce livida.

  • «À quoi bon un cinéaste en temps de manque? À faire parler la Terre! Entrer dans le secret d'un Soleil, d'une brume et du magnétisme tellurique - via les indigènes du secteur...»
    (F. J. Ossang, Mercure insolent)


    La sovversione dell’anima è declinata nelle più variegate sfumature, dal bianco conducono al nero, e dalle tenebre scivolano nuovamente verso chiarori luminosi, la rifrazione della luce accende i grigi, illuminandoli di scintille che accendono la notte; barlumi lattescenti scivolano liquidi tra le pieghe più nascoste della mente umana.

    Rileggendo le trame del noir, F. J. Ossang libera la materia filmica plasmandola in un ibrido di contaminazioni fra generi e forme con un’esplosione anarchica, creando un corpo unico, un organismo libero fagocitante esperienze e derive narrative.
    La storia narra di un cargo in viaggio alla volta di una “virtual zone”, l’isola di Nowhereland, una nave fantasma in rotta verso l’isola che non c’è, un non luogo dove sono diretti Magloire (Paul Hamy) e strambi personaggi, a bordo una cassa di polonio, materiale esplosivo pronto a detonare. «La nave volava, si schiantava contro le mantelline, stellava i muri. Qua e là, negli intervalli di notte, fra i lampioni, si vedeva il dettaglio di un volto rosso dalla bocca spalancata, di una mano che indica il bersaglio.» (J. Cocteau 2015, pag. 17)


    Un percorso, seguendo il flusso della follia, in un luogo fantastico, come il cinema di Ossang, così insurrezionale e terrorista, come un congegno pronto a tuonare in qualsiasi momento. Antonin Artaud sovente dipingeva come «velenosa» ed «eccitante» la settima arte, la rivelazione di un «imponderabile», di una «liberazione delle forze oscure del pensiero»: l’immagine, nell’accezione artaudiana, è un insieme di forze esoteriche e misteriose che sono pura emanazione «della vibrazione stessa e della stessa origine incosciente, profonda, del pensiero» (A. Artaud 2001, pag. 147).


    Ossang dà vita a una struttura anarchica, dotata di uno sconquassante potere tellurico, con un bianco e nero espressionista e dalle nebulose atmosfere oniriche. 9 Doigts, presentato in concorso a Locarno70, dove ha vinto il Pardo per la migliore regia, è un’opera squisitamente punk, una composizione visionaria, vicina per fragore alla musicalità dei New York Dolls o dei britannici Sex Pistols; un’astrazione che dal classicismo del noir anni Quaranta scivola in una rapsodia metafisica dai toni allucinati.

    Il regista francese infrange gli schematismi narrativi e si affida a coordinate surreali, la materia visiva sembra essere costituita da enigmi simbolici à la Bosch, tra relitti, acque malmostose e la follia umana che conduce in un labirinto oscuro, un corridoio senza possibilità di evasione dove la mente si smarrisce nella circolarità del tempo per non ritrovarsi mai più. Nelle notti eterne, tra la nebbia, Ossang tratteggia le ombre fosche di uomini persi, coscienze smarrite e menti che vacillano in preda alla malattia, il contagio si diffonde a bordo del cargo e nessuno è immune, tutti sono rapiti dal male, un delirio che confonde il reale e l’immaginifico.

    La linea dell’orizzonte che divide il mare dal cielo è sempre più vaga, tutto è confuso nella tenebra, tra paesaggi emersi dalle tele popolate di spettri di Léon Spilliaert e gli scenari cupi di Constant Permeke. Intossicazioni visive e linguistiche conducono i dialoghi a impregnarsi di un organismo poetico la cui carne e (de)composizione meravigliosa è mutuata ora da Lautréamont ora da Burroughs, anche se i riferimenti letterari, inevitabilmente, non possono che spingersi oltre, affondando le radici in Verne, o in Conrad, ma anche nelle parole imbevute di assenzio e oppio di un rimbaudiano Le bateau ivre. Un’Odissea tra i flutti della pazzia di un manipolo di uomini in balia di un delirio, alla ricerca di un oggetto oscuro, metafora della bramosia di possesso, del viaggio verso il piacere delle delizie malevole promesse dall’ignoto. 
    Da una stazione inizia la corsa sfrenata di un uomo in una notte senza stelle, una fuga che si conclude in un porto dalle acque torve in superficie e agitate nelle profondità da mille correnti contrarie e da maelstrom vertiginosi, come Poe descriveva «un mare d’inchiostro […] dalla vorticosa rabbia del fiotto, che saliva sino sopra la bianca e lugubre sua cresta, urlando e muggendo eternamente» (E. A. Poe 1869, pag. 237). 

    Dalla corposità materica di un bianco e nero stratificato e cupo, che negli scenari di apertura è vicino a L’uomo di Londra, di Béla Tarr, luoghi di partenze ma non di arrivi, dove, come in 9 Doigts è possibile acquistare un “biglietto per l’inferno”, si passa a una messa in scena chimerica  acutizzante la visionarietà dell’opera e le derive mentali di Magloire e del resto della ciurma, avvolti da tempeste marine turneriane e da deliranti proiezioni allucinate, in bilico tra realtà e sogno/incubo.

    L’immagine è baconiana, si apre allo sguardo come un urlo lacerante, una deformazione espressiva dei muscoli facciali, in una tensione che è mutamento delle forme, proprio come il cinema di F.J. Ossang, sovversivo e anarchico, un unicum nel panorama attuale cinematografico, che affonda le sue unghie nei primi Lang, ma anche in Ejzenštejn, e poi nel surrealismo di Cocteau, fino a Godard, creando un corpo filmico vibrante, muscolare ed eversivo. Regista, poeta, scrittore e musicista, il francese crea immagini di una potenza incandescente, come Bacon per Deleuze (Logica della Sensazione): «dipinge il grido, in quanto mette la visibilità del grido, la bocca aperta come voragine d’ombra, in rapporto con forze invisibili, che non sono poi altro che le forze dell’avvenire».

    Lo sguardo è aperto e deflagrato, si muove su geometrie proprie, una morsa selvaggia che, come il cinema muto di inizio secolo, ha una sua linguistica che può debordare avvalendosi di un immaginifico blasfemo. In 9 Doigts i dialoghi stratificano parole tracimanti e si è sempre sull’orlo del baratro di una catastrofe imminente, in una visionarietà perturbante.
    La furia della tempesta scuote l’occhio in un avvilupparsi di vertigini rock, la musica stessa, parte fondamentale nelle opere di Ossang, fa riferimento a presenze fantasmiche presenti sullo schermo, Loi de fantômes, richiamo a un ritorno del passato che contamina il presente ed è la matrice di una mappatura del futuro, del cinema ossanghiano, la dedica sui titoli di coda, meravigliosa dichiarazione d’amore verso un cinema sempre presente e follemente amato: «All my fucking friends are fucking dead!»

  •  «-Perché continui a filmare?
    - Per la memoria»

  • Esiste un cinema di “ottiche” la cui sua ossessione per il controllo e l’impaginazione rigorosa si serve di una messa in inquadratura che costituisce l’ultimo esito di quella scatola magica, o dispositivo simbolico, che è la prospettiva. Strumento capace di riordinare il reale, la sua autosufficiente autorevolezza non ammette dubbi ma solo confini stabili, e, inoltre, offre all’occhio una postazione certa, installandolo nel centro di un universo in espansione, ma, alla fine, enumerabile e finito (anche se la sua enumerabilità è assai estesa, e la sua finitezza include tutto un gioco di botole, sotterranei e bassofondi babelici), il tutto interpretabile semioticamente, cioè come universo concluso di segni.

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