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Cinque amici nel loro piccolo paese sul mare. Un passato che li unisce ma un’infanzia che ritorna ostinatamente e di cui non si vuole fare a meno. L’impossibilità di andare avanti e crescere. Sogni e prerogative: tutto resta sospeso per le strade di Falkenberg.

 

 

 

 

 

Esilio. Falkenberg rappresenta questo: un bozzolo senza vie d'uscita, solo feritoie lontane e poi... il buio.

Falkenberg Farewell è un diario sulla potenza corrosiva dei ricordi. Una mappatura di stati d'animo laconica, lievemente percepita. È l'occhio giovane di un regista al suo primo lungometraggio, che semina e che vive un viaggio fermatosi, ad un certo punto, in un’estate dove il tempo è stato sospeso in un paesaggio fluido. Un piccolo paese di mare dove gli inverni non esistono e tutto scorre leggero in questa natura sciolta in luci nostalgiche del crepuscolo all’orizzonte, come a rievocare pellicole sgranate (filmini in super8 girati nel rifugio/deserto familiare) di giochi d'infanzia e amicizie eterne. Paludi strette in una morsa asfissiante: un legame ermetico scavato così a fondo «quando il ghiaccio si scioglieva» per sedimentarsi emotivamente lì, in quel terreno umido, al riparo da ogni tipo di cambiamento, con uno sguardo teso a un lento spegnimento, mentre fuori la vita «raschia» e «fischia», invoca la sua metamorfosi in un nuovo organismo che prende forma, respira.

Di fronte al nulla non c'è ragione di scegliere qualcosa di meglio (quantità o qualità), in fondo anche «il bacon può essere meno peggio di altre cose», e la felicità si accontenta di un residuo passato, lo scarto emotivo consunto, ormai opaco. E allora ci si reinventa in questa negazione di significato. Il regista è abile nell’ipotizzare nuovi (ma futili) momenti di felicità cercando vertigini in un non-luogo, la foresta al riparo da un cielo che presagisce la fine di una stagione. Ma tutto è non-vita: in questa selva da cui non si potrà più uscire: non c'è vibrazione dei corpi, scricchiolii erotici, sibili vitali, ma solo attese, appoggiati a uno steccato; e la camera volutamente riprende il mormorio esistenziale dei due giovani immobili, mentre il pulsare organico della vita passa nel respiro rauco delle ruote sull’asfalto che vanno. Falkenberg resta lontano, ovattato, e ci si immerge ancora in quel tocco  musicale del pelo dell'acqua: l’inarrestabile voglia di tornare al principio, a quel «sogno cadenzato» (Campana) che era la loro infanzia e che torna, ora,  nell’immagine nuda dei loro corpi ormai vuoti, poveri di tutto, e la pelle d’oca di chi ha capito che è tempo di uscire e andare.

Lo stesso Jesper Ganslandt cammina su questo ponte di passaggio, lo attraversa ed è l’unico a sfidarlo (il passato, un “virus” che decompone e immobilizza), per poi tornare inevitabilmente indietro ed osservare la presenza ancora distante di formule salvifiche, il varco che porta alla rinascita. E il tono leggero, intimo, inciso da quest’autobiografia divisa in sezioni, ci proietta nel realismo di un paese di provincia distante dal dinamismo urbano delle grandi città e tutto diventa cenere-piattume che si disperde e si raggruma nelle bocche secche di quegli adulti che non conoscono altro che argomenti in esaurimento e che attendono rassegnati ai bordi delle loro case  un accenno di colore.

Falkenberg è anche la sintesi irredimibile del vitale che si protende, per propria natura, al mortuale: David e Holger, due ragazzi, due amici viventi l’uno per l’altro; il loro battito sincrono non è altro che il racconto di “un uomo” che si biforca in due finali differenti: da un lato David, quest’albero che deve essere abbattuto perché ormai morto e il rimbalzo in una sorta di apnea lenta nel cammino per il bosco, e poi il grilletto che preme e lo scoppio; dall'altro, la presa di coscienza che si rianima e si propaga in uno tzunami di corse increspate da una camera a spalla, che vibra e anela a questo effetto ecoico del risveglio, urla infine, in gola tra le corde vocali di Holger in una sorta di filo conduttore a ricreare lo spiraglio, il miracolo, “una seconda occasione di vivere”. 

Resta un diario di parole, la memoria «attaccata come un parassita», mentre tutta Falkenberg si lascia passare da echi e cori che sanguinano all’orizzonte verso la scelta, finale, di saltare da questa insignificanza a quella «vita che è sempre stata da un'altra parte».

 

 


 

 

Titolo: Falkenberg Farewell
Anno:
2006
Durata:
91
Origine:
SVEZIA, DANIMARCA
Colore:
C
Genere:
DRAMMATICO
Specifiche tecniche:
35 MM, CINEMASCOPE
Produzione:
MEMFIS FILM AB, FILM I VÄST, ZENTROPA

Regia:
Jesper Ganslandt

Attori: Holger Eriksson (Holger); John Eriksson (John); Jörgen Svensson (Jörgen); David Jonsson (David); Jesper Ganslandt (Jesper).
Sceneggiatura:
Jesper Ganslandt, Fredrik Wenzel
Fotografia:
Fredrik Wenzel
Musiche:
Erik Enocksson
Montaggio:
Michal Leszczylowski, Jesper Ganslandt

Riconoscimenti

Reperibilità

 

http://www.youtube.com/watch?v=Wxmf58mqZZ4 

 

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