storyFiction: quanto è frutto della fantasia e dell'inventiva, contrapposto a quello che fa riferimento a eventi reali. Non Fiction: Solondz.





Concepito forse (anche) per rispondere alle aspre critiche (“suburban shocker” l'appellativo più ricorrente) rivolte al precedente Happiness, il quarto film del newyorkese Todd Solondz, Storytelling, sembra incagliarsi e quasi incespicare sul tema della creazione artistica e del suo rapporto decisamente conflittuale con la realtà. I titoli di testa pregni di colori vivaci e delicate melodie stridono con la successiva e prima scena, incentrata su un veloce amplesso spoetizzante (perfetto gancio d'unione a Happiness, nel quale l'antitetico titolo appariva a schermo pieno subito dopo una feroce lite, che lasciava piuttosto strascichi di commiserevole tristezza).

La bipartizione tra “finzione” e “non finzione” (solo parziale traduzione dei meno generici “fiction” e “non fiction”) si pone ad essenziale e didascalico processo di esposizione teorica. In questo senso la prima parte del film si volge a guida su ciò che deve essere epurato da un valido processo di scrittura: demolita qualsivoglia forma di autoreferenzialità, l'idea portante è che «la trasparenza è imbarazzante», l'ambiguità regna, tutto è costante frizione tra impulsi opposti; e questa metanarrativa summa di poetica è costellata da tentativi di demistificazione di quel “politically correct” a cui Solondz è tanto recalcitrante: razzismo e abusi («nigger, fuck me hard»), debordante scherno verso i perdenti.

La seconda parte pare frutto della buona riuscita di quel corso di scrittura creativa: Toby Oxman, commesso in un negozio di scarpe ma aspirante documentarista, nel tentativo di offrire un “indispensabile” sguardo d'insieme sugli adolescenti di periferia e sui drammi legati ai college, sembra ricomporre, anche fisionomicamente, la figura dello stesso Solondz di Welcome to the dollhouse: come un Herzog in chiave sardonicamente “nerd”, Oxman strumentalizza la realtà di una “comune” famiglia della media borghesia americana (i Livingstone, nome emblematico, che identifica anche la periferia del New Jersey dov'è cresciuto il regista) quel tanto che basta a mostrarla in un'angosciante sequela di vacui valori e sistematico conformismo (di cui simbolica apoteosi è quella costante “ricerca di conoscenze” che scalza qualsiasi opzione meritocratica). A completare l'agghiacciante quadretto è la proiezione del documentario al pubblico: nella triste cornice che la pellicola dipinge, nonostante il serio vituperio morale (in)direttamente inflitto a un nucleo stereotipo di quello in sala, è la derisione a dominare. Ed è dunque Solondz - «trovo molto interessante far nascere nello spettatore il dubbio se debba ridere o meno dinnanzi ad una determinata scena e se è moralmente corretto ridere in quel momento» (Jordi 2005) - che, seguendo linee umoristiche neppure troppo lontane da archetipi di tipo pirandelliano, bacchetta un pubblico che è tanto vittima quanto carnefice, perché “subisce” il film eppure deve emettere il superficiale giudizio. 

E' questo il cinema di Todd Solondz, spietato poeta dell'angoscia borghese americana, che decide di non conferire forma cinematografica fissa alla miseria e alla sofferenza, le quali scorrono come flusso perpetuo nella sua filmografia, che è spesso riproposizione degli stessi personaggi, differenziati da mere maschere somatiche. Ed è il caso di Mikey, il Livingstone ultimogenito, che tanto quanto la Missy di Welcome to the dollhouse, è portatore sano di cinismo e nequizia, prodotto parossistico di una società (e più in particolare di un nucleo familiare) in continua involuzione patologica: è spietato e la sua conturbante insensibilità crea fastidio, specie quando infierisce con sprezzante superiorità sull'anziana domestica, disperata per la perdita del figlio, fino a farle perdere il lavoro accusandola di pigrizia. Il male si annida in ogni singolo individuo ma lo sguardo registico esula dal giudizio, sicché ogni azione, per quanto esecrabile, è neutralmente illustrata.

Con i suoi agghiaccianti foto-ritratti sociali, questo lucido cantore di incompiute esistenze, abbatte la convenzione creando congestione, sussulto viscerale, svelando il non svelabile e celando l'inflazionato (quando in Happiness si inquadra in crudo primo piano lo schizzo di sperma, che s’arresta sul muro fungendo da collante per cartoline, mentre si censura il truculento omicidio). Del resto «la forza etica di un'opera cinematografica sta anche nella capacità di far spalancare gli occhi a chi si rifiuta di vedere una realtà troppo scomoda da poter essere sopportata» (Mondella 2010, p. 24).


Bibliografia

C. Jordi (2005): Todd Solondz. En los suburbios de la felicidad, Ocho y medio, Madrid.

D. Mondella (2010): Sgradevole è bello, Edizioni Pendragon, Bologna.


Filmografia

Fuga dalla scuola media (Welcome to the Dollhouse) (Todd Solondz, 1996)

Happiness (Todd Solondz, 1998)




Titolo: Storytelling
Anno: 2001
Durata: 87
Origine: USA
Colore: C
Genere: COMMEDIA, DRAMMATICO
Produzione: GOOD MACHINE, KILLER FILMS, NEW LINE CINEMA

Regia: Todd Solondz

Attori: James Van Der Beek (Graham); Heather Matarazzo (Kendra); Emmanuelle Chriqui (Lois); Adam Hann-Byrd (Francis); Selma Blair (Vi); Paul Giamatti (Toby Oxman); Leo Fitzpatrick (Marcus).
Soggetto: Todd Solondz
Sceneggiatura: Todd Solondz
Fotografia: Frederick Elmes
Musiche: Nathan Larson
Montaggio: Alan Oxman
Scenografia: James Chinlund
Costumi: John A. Dunn
Effetti: Mark Boro; Drew Jiritano; Andrew Mortelliti; Robert J. Scupp; John R. Stikanch; Thomas Viviano; Balsmeyer and Everett Inc.


Reperibilità


http://www.youtube.com/watch?v=DJulMUYM29c

Tags: