altPierre e Manon si amano. Fanno dei documentari con niente e sopravvivono facendo piccoli lavoretti. Pierre incontra una giovane stagista, Elisabeth, che diventa presto la sua amante. Egli non ha intenzione di lasciare Manon per Elisabeth, ma vuole stare con entrambe. Un giorno Elisabeth scopre e rivela a Pierre che la sua donna ha un amante. Manon e Pierre si separano.


Forse è vero che si vive di una sola grande ossessione e Garrel sembra confermarlo girando, in fin dei conti, sempre lo stesso film. Come rinfrescato dalla brezza di una nuova e disincantata primavera - e penso alla leggerezza de La Jalousie (2013) - il regista francese prova a (ri)scoprire attraverso la lente della sua macchina da presa come si dispiega l’essenza contradditoria e dolorosa del sentimento amoroso.

Il valzer di addii e promesse di eternità che volteggia lungo tutta la sua filmografia – e con una certa continuità per lo meno da Elle a passé tant d'heures sous les sunlights (1985) in poi - pare seguire il ritmo della fascinazione dei corpi e quello dello stordimento dell’immaginazione sentimentale che è al principio di ogni innamoramento. L’evento chiave che innesca i primi battiti del cuore di ogni storia o avventura d’amore, ma che ha anche una natura fortemente ciclica e imprevedibile, si accende di una violenta fiammata che non è altro che il riflesso ammaliante di ciò che viene proiettato sull’oggetto amato e/o desiderato. Tant’è che non appena s’infrange quella bolla iridescente, non appena si scosta il velo di quella creazione ideale, non appena cadono le foglie delle illusioni, ci si scopre troppo vicini, troppo reali – come diceva Martin a Lolla nelle battute iniziali di J’entends plus la guitare (1991). D’altra parte, per dirla con Marguerite Duras, nessun amore vale l’amore.

E infatti, anche in quest’ultima fatica, L’ombre des femmes, i corpi sembrano alleggerirsi come sonnambuli nell’insidia di una volontà assoluta che è la volontà di amare e di essere amati. Ripensando Truffaut o il primo Godard – senza dimenticare la forte impronta bressoniana e dreyeriana - le inquadrature scavano un tempo interiore, una geografia dei sentimenti che affrancano dalla tirannia sterile del quotidiano. Sono sussurri di bianco e nero – splendido e ad opera di Renato Berta – a lasciare affiorare malinconiche architetture del tempo: il tempo di uno sguardo che cerca una presenza, il tempo dell’ombra tra il collo e i capelli, il tempo di una lacrima dall’occhio alla bocca, il tempo di un sospiro rubato al silenzio e quello di una mano dentro un’altra mano e di una bocca dentro un’altra bocca.

L’ombre des femmes, allora, sembra diluirsi in un fluire dolente e nostalgico: quella nostalgia che è nel bisogno di perdersi, di alleviare la mancanza che è in seno all’essere, di toccare la ferita che è nell’altro. Bataille ha scritto:«[…] non c’è nostalgia più grande di quella che attrae due ferite l’una verso l’altra.» (Bataille 2011, pag.25). E, così, in un finale commovente, un abbraccio inatteso e spontaneo – che rivela tutta la potenza di un cinema che si nutre dell’immediatezza di un'unica ripresa - allontana la paura della fine dell’amore che forse non è altro che la paura della morte.


Bibliografia:

Bataille G. (2011): L'amicizia, SE, Milano



Titolo:
L'ombre des femmes
Durata: 107
Anno: 2015
Colore: B/N
Genere: Dramamtico

Regia: Philippe Garrel

Sceneggiatura: Philippe Garrel, Jean-Claude Carrière, Caroline Deruas, Arlette Langmann
Fotografia: Renato Berta
Musiche: Jean- Louis Aubert
Montaggio: François Gédiger
Scenografia: Emmanuel de Chauvigny
Costumi: Justine Pearce

reperibilità

http://www.youtube.com/watch?v=PgEsUvsnOZ4

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