«Una nuova mitologia si presenta
proprio nelle propaggini mature della modernità […].
Il mezzo che richiama alla ribalta nuovi mitologemi
di una società ormai avviata verso il suo divenire-massa […]
è il cinema».
(Karl Marx, Per la critica dell’economia politica)

Saremo anche nell’asettico regime dell’immagine numerica, perfetta sintesi di calco e calcolo, ma quella vampa di fosforescenti luccicanze che è l’apparizione cinematografica custodisce ancora qualcosa di mostruoso. Mostruosità che, come suggerisce la parola, è semanticamente imparentata col mostrare, azione che continua a rimanere la ragion d’essere del cinema.

E sono proprio due mostri, di derivazione letteraria, ma impostisi soprattutto nell’immaginario spettatoriale, a rappresentare stimolanti metafore del dispositivo filmico. Se l'immagine cinematografica può essere metaforizzata dalla figura del vampiro, con cui condivide la natura umbratile (si manifestano nell'oscurità e non sopravvivono alla luminosità), metamorfica, simulacrale (il vampiro non si rispecchia negli specchi e non ha ombra perché è egli stesso un riflesso. La sua, come quella dell’immagine cinematografica, è una corporeità di secondo grado), il film può invece trovare conformità simbolica nel de-forme corpo artificiale di Frankenstein, in quanto entrambi frutto di montaggio, messi in movimento da una scarica galvanizzante.

È Noel Burch a parlare di sindrome “frankensteiniana” in relazione al cinema, proprio per la sua volontà di creare un doppio della realtà, ma anche di trionfare sulla morte, travalicarla  per mezzo di un meccanismo di eternazione quasi soprannaturale. Il cinema, oltre alla capacità di “fare rivivere”, per Burch, anche attraverso lo star system «non fa che prolungare il sogno frankensteiniano, il suo esorcismo della morte (il cinepersonaggio muore – se non altro perché il film finisce – ma la star rinascerà nel prossimo film)» (Burch 2001, p. 231). I film, dunque, operano una restituzione alla vita (virtualmente) eterna, e i loro personaggi, proprio per questo, risultano essere “diversamente vivi”. Ma la mostruosità della creatura frankensteiniana è anche immonda, perché assemblaggio di immondezza, di rifiuti, di pezzi di cadaveri trafugati.

Stando a tutto quanto appena detto, Final Cut – Ladies and Gentlemen di György Pálfi è una vera e propria opera-frankenstein, realizzata con le scene selezionate da 451 film cult della storia del cinema, rimontate per raccontare una storia d'amore. Un gioco godardiano che, come le Histoire(s), ha lo scopo mostrare la storia virtuale che le immagini filmiche recano in sé. Pálfi pensa al cinema come ad uno sterminato database, un’enciclopedia di gesti essenziali, uno spazio ideale che affianco ai film realizzati conserva le tracce di quelli che si sarebbero potuti realizzare. Il regista di Taxidermia sottrae frammenti visivi dal loro continuum filmico, dall’originario contesto narrativo, per riconcatenarli altrimenti.

Il cinema, ci dice Pálfi, è composto da frammenti la cui potenza visiva non dipende soltanto dalle storie nelle quali sono combinati. Questi sono anche delle unità manipolabili, degli elementi metamorfici che possono sottrarsi alle proprie connessioni, trasformandosi all’interno di nuove concatenazioni. «In questo regime ogni elemento è al contempo un’immagine materiale, che può essere trasformata e combinata all’infinito, e un’immagine-segno, capace di nominare e interpretare qualsiasi altra immagine» (Rancière 2006, p.236). Si tratta soltanto di liberare le sequenze dal vincolo «degli intrecci narrativi, per poter così intendere il loro intimo mormorio, per lasciare che siano esse stesse a imprimere il marchio della loro presenza» (ivi, p.237).

Raccontato così Final Cut potrebbe anche sembrare un algido divertissement concettuale, invece è un’operazione resistenziale, fatta con scorie e macerie cinematografiche. E la storia d’amore mostrataci «contiene quel nessun amore aveva contenuto finora: la giusta parte di ultravioletto» (Epstein 2002, p.28)


Bibliografia

Burch N. (2001): Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Il Castoro, Milano

Epstein J. (2002): L’essenza del cinema, Marsilio, Venezia

Rancière J. (2006): La favola cinematografica, Edizioni ETS, Pisa





Titolo: Final cut - Ladies and Gentlemen
Anno: 2012
Durata: 84
Origine: Ungheria
Colore: Colore, B/N
Produzione: TT Filmmûhely, Eurofilm Studio Ltd, Filmax

Regia: György Pálfi

Sceneggiatura: György Pálfi,  Zsófia Ruttkay
Montaggio: Judit Czakó, Károly Szalai, Nóra Richter, Réka Lemhényi
Musiche: Barna Balász

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