altAntiporno, nuovo gioiellino meta riflessivo di Sion Sono appena passato al trentaquattresimo Torino Film Festival, ha molti dei tratti più riconoscibili di questa sorta di unicum che è il segno autoriale di Sono. Anche in questo caso le protagoniste sono giovanissime, poco più che adolescenti e il fatto che Kyoko sia una scrittrice di fama richiama tanto la professione del marito di Izumi in Guilty of Romance che la Taeko di Strange Circus del 2005 il cui romanzo finge da cornice a tutta la storia.

Antiporno condivide con questo film anche le modalità di messa in scena del tema sessuale e della patologicità delle relazioni familiari, che in entrambi tendono all'iperbolizzazione degli aspetti più di limine, la violenza esarcebata ed estrema, la perversione sempre segnata da artaudiana crudeltà, che diventano il medium per una virulenta critica del sociale contemporaneo. La scena, a pochi secondi dall'incipit, in cui il corpo diafano di Kyoko è incorniciato nell'abbagliante campitura rosso accceso di un muro, ha la stessa seduttività cromatica di quella clamorosa e super cult del pavimento insaguinato di Why Don't You Play In Hell del 2013. In entrambi, poi, è facile ritrovare il filo di una riflessione sulla rappresentatività filmica, che a livello diegetico si svolge attraverso il continuo raffronto e rovesciamento tra situazioni reali e finzionali, myse en abyme, messe in scena della messinscena cinematografica.

Sono, ben al di sotto dell'apparenza fatua di un Roman-porn dalla fattura eccessiva e iper cromica, nasconde un complesso metatesto sulla rappresentatività cinematografica procedendo per accumuli e condensazioni, assolutamente più preoccupato del dire, e del cercare di dire tutto, che non dell'essere agevolmente compreso. Messa in scena della messa in scena, già lo abbiamo detto. Il soggetto di Antiporno infatti non sembra essere, come sarebbe in un vero porno e come pare di primo acchito, una performance sessuale. La struttura narrativa del film, più adatta a dimostrare una tesi che non a raccontare un'azione, i continui eccessi formali, gli scarti narrativi incongruenti, le continue inferenze di tipo metalinguistico e sociologico dirottano la nostra attenzione di spettatori su congetture e speculazioni che di fatto impediscono quel tipo di partecipazione libidica che la pragmatica di fruizione della pornografia implica in condizioni normali e su cui il regista avrebbe inevitabilmente dovuto puntare se il suo scopo fosse stato quello di fare un semplice film pornografico. Più che al contenuto sessuale Sono sembra infatti interessato alle modalità ricorsive, agli stereotipi, con cui quel genere cinematografico, il Roman-porn giapponese degli anni sessanta-settanta, metteva in rappresentazione il sesso. È in questo esercizio metariflessivo, allora, che dobbiamo leggere la rappresentazione di quella misoginia e di quella violenza di cui uno sguardo epidermico potrebbe imputare il film, una violenza che non rappresenta per via diretta la violenza della realtà, ma quella di cui erano impregnati uno specifico ambiente culturale e il genere della rappresentazione che ne era l'espressione diretta, il Roman-Porn. Rappresentazione di una rappresentazione della violenza, il luogo comune tarantiniano, che però ha una sua verità. Con uno scarto inferenziale minimo ovviamente, attraverso l'esibizione delle sevizie sul femminile o l'idea che per piacere agli uomni si debba essere “puttana” o “cagna” più volte ribadita e mettendo in scena il sesso come forma di violenza, Sono ci spinge verso una riconsiderazione polemica della pervicace preponderanza fallocentrica e virilista che, nascostamente, continua a infestare l'impianto culturale della società giapponese, ma che in misure diverse riguarda anche le società occidentali, come la nostra. L'assenza di personaggi maschili non inficia questa lettura nella misura in cui è evidente che i comportamenti di alcune delle protagoniste stilizzano, e stigmatizzano attraverso l'iperbole a scopo parodico, comportamenti e attitudini del pensiero schiettamente maschili, nel senso peggiore dell'espressione. D'altronde la passività disturbante della segretaria Noriko, che si lascia infliggere brutalità oltre il limite della nostra sopportazione di spettatori, è una proiezione di quell'idea prettamente maschile di passività e remissività femminili, che nella cultura del sol levante si concreta nell'archetipo della donna-geisha o della schiava, e che da noi, ufficialmente espunta dal quadro del benpensare condiviso, alligna segretamente, tra lo stretto asfittico di certe mura domestiche, o si appoggia in silenzio ai banconi dei bar, tra le viuzze sassute del paesello, come tra i divani dei salotti bene.

Ben oltre il meta discorso sul singolo genere cinematografico, la rimetabolizzazione del Roman-Porn, Sono ci incastra in una sorta di meccanismo-matrioska che ci disorienta con continui slittamenti tra piani del reale e della rappresentatività spettacolare. La logica di costruzione del suo (meta)testo è più dimostrativa, teorematica, che non narrativa, ed è alle necessità di questa logica che risponde la struttura di esposizione, spezzata e reiterativa. In barba a qualsiasi regola sulla continuità, quindi, Sono articola il suo film come una serie di riproposizioni non identiche della stessa situazione drammatica, in cui le inversioni di ruolo tra personaggi o di attori rispetto al ruolo, gli slittamenti tra piani e forme della rappresentazione spettacolare (da film a rappresentazione teatrale, da personaggio filmico a soggetto di un quadro e da qui a personaggio di un romanzo, ecc.) continuamente problematizzano le nostre certezze circa i legami tra la realtà e le sue modalità di rappresentazione, cinema in testa. La continuità narrativa si strania e si decostruisce mentre trasuda a gocce l'incertezza sullo statuto ontologico di quanto stiamo vedendo. Ci sfugge l'opportunità di fissare un discrimine e tutto si fluidifica nel tutto, in una sorta di osmosi cellulare tra film, reale, allucinazione, sogno, teatro, pittura e scrittura. In quanti modi si può rappresentare la vita, un personaggio? Quando inizia la finzione, lo spettacolo, quando il quotidiano nostro è un continuo metterci in rappresentazione di fronte agli altri e in funzione loro? Lo statuto di realtà di un'azione dipende da un ciak? Basta la presenza taumaturgica del regista col suo occhio meccanico a trasformare in finzione una situazione reale? Le risposte che troviamo vengono sbugiardate da ogni nuovo avvitamento del punto di vista e della consistenza della realtà. Il tutto poi è posto in un contesto dubbio, per cui si potrebbe anche pensare di trovarci immersi nel delirio psicotico della mente schizoide della protagonista, e che dunque nulla sia reale, o che si sia alla ricerca del trauma infantile che la ha trasformata, quindi tutto fluttua e la certezza si rimanda.

Unità di luogo, tutto avviene nel mono spazio arioso del coloratissimo loft della protagonista Kyoko (Ami Tomite). Va in scena la sua vita bipolare di scrittrice e pittrice di grido, presa tra voluttuosità gaie e fanciullesche e veemenze autopunitive e disperazioni abissali, deliri sessuali e tenerezze. Ci molesta da subito un chè di sghembo e impacciato nella recitazione della Tomite, un sopra le righe continuo da risultare posticcio, che solo più avanti potremo capire. Arriva Noriko (Mariko Tsutsui) sua assistente, e poco dopo anche la direttrice di una importante rivista, con fotografa e assistenti al seguito e in men che non si dica, come in ogni porno che si rispetti, la relazione lavorativa capo\sottoposto prende una piega da Centoventi Giornate pasoliniane in salsa teryaky, caratterizzata però da uno spirito ludico che era estraneo alla crudezza del regista friulano. Si inaugura il waltzer in crescendo dei sadismi e delle sottomissioni, dei piaceri rubati e costretti, delle brutalizzazioni della carne e dello spirito.

Quando però sullo schermo il delirio orgiastico, sembra aver raggiunto il suo climax, tutti si toccano, si penetrano, e tutto geme, ecco che una voce off grida un perentorio «cut», cioè il tipico comando con cui il regista dichiara terminata la ripresa di una scena, e infatti l'azione si ferma, gli attori escono di parte, cambiando voce, atteggiamento, diventando persone che non conosciamo, e l'inquadratura mostra tecnici, microfonisti, operatori di macchia e il regista, la circumscena. Tutto ciò che credevamo di sapere, dunque era falso? Nessuna di quelle situazioni era reale? Addentrandoci nella vita di set qualcosa via via ci sorprende. Tutti gli equilibri si rovesciano e svelano la natura finzionale dell'azione cinematografica. L'autoritaria Kyoko del film è in realtà una tremula attricetta timida, alle prime armi, continuamente vilipesa e brutalizzata proprio da colei che incarna la sottomessa assistente Noriko. Kyoko a causa delle sue scarse doti recitative viene continuamente insultata e punita dalle compagne di set in una escalation di degradazioni e castighi che ripetono specularmente, ma stavolta nella realtà, quelle che si erano viste in scena, un passaggio che si arricchisce di ulteriori complicazioni teoriche per il solo fatto che quel set che si da come esterno alla scena filmica, in realtà, è a sua volta ripreso e inserito in un film, quello di Sion Sono. A questo punto anche quell'aura di posticcio che avevamo rilevato nella recitazione di Kyoko- Ami Tomite può essere intesa diversamente, non più , quindi, come un difetto della prestazione attorica, ma come una prestazione attorica che riproduce una prestazione difettosa. Lo spettatore a questo punto, questo era lo scopo del regista, non è più in grado di intendere se la situazione presunta reale duplichi quella della finzione o viceversa. Se dopo aver scoperto la presenza del set si era disposto a ritenere fittizie le relazioni di forza tra Kyoko e Noriko ora le ritrova nella realtà (fittizia a sua volta in quanto contenuta nel film Antiporno di Sion Sono), quindi dovrà cambiare opinione una seconda volta rispetto a quanto vede, tuttavia rileverà una distonia relativamente ai personaggi, poiché nella realtà i loro caratteri esistono, ma abitano corpi differenti da quelli che hanno in scena, costringendolo a rivedere le “identità” che aveva elaborato, che pure esistono al di fuori del film, ma con corpi diversi. Ogni relazione diegesi-realtà, personaggio-persona viene continuamente ridiscussa e ricontrattata.

La situazione a un certo punto si azzera, il film riprende dall'inquadratura iniziale, con Kyoko addormentata bocconi sul letto, che stavolta però ha le mutandine alzate, e non a metà gamba come la prima volta, dopo la scena in bagno arriva Noriko. E qui un nuovo slittamento dimensionale fa capitolare ogni certezza che avevamo elaborato. In casa stavolta non c'è il set. Kyoko è esterrefatta e terrorizzata, cerca disperatamente regista e tecnici, le sembra di impazzire perché, dice, quella non è la sua vita, lei ha un film da finire. Altrettanto esterrefatta pare però Noriko ( e noi con lei) perché a lei non risulta nessun film, non ha mai visto un set e ha sempre fatto solo la segretaria. Collisione di piani, frizioni tra realtà, difficile dire se la Kyoko del film che stavamo seguendo precedentemente sia stata proiettata in una realtà differente, in cui non deve fare alcun film, se invece ci troviamo semplicemente in un film diverso, in cui Kyoko è completamente pazza e il film che deve fare è una sua allucinazione ( e il fatto che a riprova della sua vocazione da porno attrice mostri un filmato in cui lei si vede mentre consuma un amplesso nel bosco e tutti gli altri vedono un bosco vuoto, gioca in questa direzione) o se Noriko sia una persona reale e Kyoko un personaggio, o se entrambe sono reali e via dicendo. Questa nuova configurazione degli equlibri di forza e dei ruoli genera a sua volta dubbi sullo statuto onntologico dei personaggi e delle situazioni di cui vediamo l'immagine, dubbi sull'immagine stessa e sulla sua “veri-dicità”, sulle nostre credenze relative al film, che vanno a stratificarsi sugli interrogativi che già ci affastellavano le meningi. Se poi si pensa che il meccanismo è ripetuto più volte e in più varianti ci si può fare un'idea della complessità di senso che s'adombra tra i fotogrammi di questo apparente filmetto porno. L'altro polo di attrazione carismatica di Antiporno è la sua immagine. Tutto è permeato da una sensibilità pittorica sgargiante e chiassosa, da post pop-art vagamente post-punk, i derivativi sono d'obbligo nell'estetica rielaborativa e citazionista di Sono, capace però di inaspettate elegie visive, schegge di bellezza scopica incantevole. Sembra di madreperla Kyoko, mentre danza seminuda nella cornice abbacinante delle pareti di rosso vivo, giallo ocra acceso o azzurro intenso, e crea composizioni visive di bellezza stremante, carnale e astratta insieme. Il regista crea consapevolmente una tensione continua tra corpo e sfondo, quasi a forzare la relazione fondante la semantica pittorica e cinematografica, e qui ne fa conflitto aperto, urto cromatico da cui entrambe le istanze escono percettivamente ravvivate, più intense ed evidenti. In queste cromie ubriacanti la figura chiara e quasi luminescente si staglia, si stacca dal piano dello sfondo guadagnando una centralità d'assoluto in questo visibile. Un corpo iper-evidente che accalappia diversamente, e più intensamente lo sguardo e ci costringe a guardare, e a godere, pur non volendolo (o non volendolo ammettere) del non lecitamente guardabile, della carne e dello stupro. Sono snuda volutamente la vocazione inconfessabilmente voyeuristica implicita nel cinema («we're becoming a race of peeping toms,» chiosava Stella, la domestica di jeff in Rear Window, film sul film per antonomasia), ma il suo gioco è proprio quello di rifunzionalizzare le più pruriginose pulsioni implicite nel consumo pornografico e costringere il suo spettatore, che segretamente benpensante, in pubblico si da un tono e recalcitra, a passarci attraverso, per quanto fintamente obtorto collo.

La dimensione estetica iper cromatica e iper-kitsch di questo film, che pullula di stelline e fiocchetti, mutandine a mezz'asta, divise da scolaretta e sciorina alabastrine morbidezze femminee esibite e abusate è il frutto di un processo di iperbolizzazione sistematica, strumento di una parodizzazione aspramente critica, dei codici di rappresentazione del Roman porn, che già di suo, si fonda su una logica iperbolica, di estremizzazione dei caratteri loliteschi e sessuali della realtà. Ne sorte una estetica dell' “iper”: iper-kitsch, iper-porn, iper-violent e via dicendo, in cui è proprio l'eccesso della misura, “l'iper” apparentemente non motivato, a definire i contorni dell'intento polemico. L'eccesso che mette in scena Sono, infatti, risulta talmente disturbante da svuotare le scene di sesso da ogni possibilità di fruizione erotizzante, l'eccitazione sessuale è completamente soppiantata dal senso di fastidio e la percezione che se ne ha è critica, non partecipativa. La presunta violenza di Antiporno, la violenta carica misogina di cui lo si può incolpare, in realtà è innanzitutto lo strumento di una critica proprio di quella violenza e di quella misoginia.



Filmografia

Strange Circus (Sion Sono 2006)

Guilty of Romance (Sion Sono 2011)

Why Don't You Play In Hell (Sion Sono 2013)





Titolo:
Antiporno
Origine: Giappone
Anno: 2016
Durata: 78'
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: DCP
Produzione: DJANGO FILM

Regia: Sion Sono

Attori: Ami Tomite, Fujiko , Sayaka Kotani, Mana Yoshimuta, Ami , Ai Shimomura, Ami Fukuda, Yuya Takayama, Dai Hasegawa, Hirari Ikeda, Saki , Hideyuki Kobashi, Hitedoshi Kawaya, Takumi Banda, Tomo Uchino
Soggetto: Junichi Itô
Sceneggiatura: Sion Sono
Fotografia: Maki Ito
Musiche: Tomonobu Kikuchi
Montaggio: Junichi Itô
Scenografia: Hirofumi Nishikiori
Costumi: Kazuhiro Sawataishi

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