Luigi Coluccio
Ouardia, vedova, ha due figli: Tarik, primogenito, soldato; Ali, secondogenito, capo di una milizia islamica. Il primo è morto, forse ucciso dal secondo. La madre riporta il corpo del figlio nella loro casa natia, arroccata sulle montagne algerine e proprio al centro del territorio conteso tra militari e miliziani. Ali, per evitare che gli succeda qualcosa, manda a proteggerla e sorvegliarla uno suoi uomini, un ragazzo che era l’artificiere del gruppo e che in una fallita incursione ha perso una mano. La situazione si complica quando viene portato a casa anche il figlio appena nato di Malia, la donna amata dai due fratelli, morta di parto…
Siamo nell’entroterra algerino, sulle montagne infilzate dal vento, con alberi di ulivo che si arrampicano sui costoni ondulati, ma non ce ne accorgiamo nemmeno, dell’altezza, della lontananza. Un insieme di piccole cose, minute, raccolte, lente, occupa questo spazio. E i corpi che si muovono tra di esse sono sottili, silenziosi, sempre a contatto con una realtà che è necessariamente fattuale. Così si curvano, stanno sdraiati, e la cinepresa è lì con loro, bassa, ravvicinata, con una linea dell’orizzonte che si misura sui solchi della terra, sui paletti fatti per sostenere le piante di pomodori, sul brucare delle pecore, e le alture, la pianura, il mare, la lontananza da tutte le altre cose scompare. La materia è l’unico parametro da ossequiare, e se non fosse per la sua nascita e crescita non avremmo lo scorrere del tempo, gli eventi, la storia – solo grazie ai peperoni raccolti segniamo lo iato che è intercorso tra l’arrivo del bambino e il ritorno di Ali, tra un fatto e un altro. Un terreno, un giardino, una casa rinascono e con essi la vita e le relazioni e i sentimenti. Ma non è sopravvivenza del corpo quanto sopravvivenza dell’anima: caffè e dolci fanno avvicinare Ouardia e il ragazzo-sorvegliante, latte di capra e insalata – e morfina – fanno ricordare alla madre e al figlio i loro ruoli.
D’altronde il titolo è madre, d’altronde regista e attrice è la sessantatreenne Djamila Sahraoui: un principio vitale irrora questo luogo algerino, questo luogo filmico. Un crocevia di emozioni, relazioni e filiazioni che partendo dall’aridità della terra, del presente, deve tendere al futuro per, ancora una volta, rinascere. Ecco che l’altopiano è spazzato da diversi e contraddittori venti: lo stato algerino, i ribelli islamici, un amore diviso tra Tarik e Ali, un fratricidio negato ma strisciante, un Islam personale e solitario. Tutto questo senza che nell’inquadratura si accalchino altri luoghi o altri personaggi, con solo la casa natia, Ourdia, il ragazzo-sorvegliante, Ali, il bambino, due militari: un’unità aristotelica che non viene mai meno, con deuteragonisti e messaggeri che parlano di altro, sentono di altro, tendono ad altro. E la riconciliazione, il ritorno allo status-quo dopo la rinascita, non può che avvenire con il termine definitivo del precedente orizzonte, con la morte di entrambi i fratelli, il loro essere seppelliti l’uno accanto all’altro. Con i primi rami di un nuovo albero a crescere sopra le loro tombe.
Titolo: Yema
Anno: 2012
Durata: 90
Origine: ALGERIA, FRANCIA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: HD, 35 MM
Produzione: NEON PRODUCTIONS, LES FILMS DE L'OLIVIER
Regia: Djamila Sahraoui
Attori: Djamila Sahraoui (Ouardia); Samir Yahia (Guardia); Ali Zarif (Ali).
Sceneggiatura: Djamila Sahraoui
Fotografia: Raphaël O'Byrne
Montaggio: Catherine Gouze
Scenografia: Mourad Zidi
Riconoscimenti
http://www.youtube.com/watch?v=Dx5ruZ6Upy4