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Mettiamo da parte il clamoroso fiume di immagini che ha intasato i canali televisivi italiani all’indomani della confessione di un uomo in merito all’assassinio della nipote. Mettiamo da parte le ore di diretta, la colite  di indignazione e di opinionismo d’accatto, i plastici e le mappe delle campagne di Avetrana. Mettiamo da parte la rabbia on demand accesa nelle teste degli spettatori. Proviamo a guardare ai bordi dell’ennesimo caso di cronaca nera che è diventato, come quasi sempre accade, la bacheca su cui affiggere gli sfoghi più viscerali di un paese che ha bisogno di distrazioni rosso sangue.

La solita storia con il mostro di turno, ultima concretizzazione dei Pietro Maso, delle Franzoni, degli Erika e Omar, fino, appunto, al reo confesso del delitto di Sarah Scazzi. Il caso di presunto omicidio che, in un agosto povero di notizie, comincia a solleticare l’attenzione del pubblico perché imposto dall’agenda giornalistica di giornali e – soprattutto – tv; un caso che prolunga la sua permanenza, perché irrisolto e perché manca il corpo della vittima che possa (finalmente, per tutti gli sciacalli televisivi) conclamare l’ufficialità del reato.
Quando si trova il corpo della ragazza e l’assassino – lo zio, pare, ma qui è del tutto secondario – confessa l’omicidio, la tv italiana, quasi a reti unificate, costruisce un unico, gigantesco speciale in cui l’attenzione è ammaestrata per percepire e ingigantire i particolari più patologici e macabri, quelli capaci di costruire un orizzonte percettivo più vulnerabile e infiammabile, di determinare una più ampia distanza dall’orrido colpevole.

La psicologia della folla e le sue emozioni sono materia fin troppo studiata e radiografata, ma qui c’è dell’altro, visto che una parte dell’indignazione degli italiani ha trovato un suo canale di deflusso all’interno dei social network. La reazione della folla, immateriale ma non soltanto virtuale, indistinta eppure identificabile con nome e cognome in ogni atomo del suo manifestarsi, è al centro di un video,  A 1562 persone piace questo elemento, realizzato da Gipi a ridosso della confessione del presunto assassino.

http://www.youtube.com/watch?v=fD5zXRrhuV4

Gipi è un disegnatore, un fumettista e un regista («di cortometraggi imbecilli», scrive lui sul suo blog, ma non c’è da credergli) che, navigando su internet e scavando dentro Facebook ha trovato alcuni gruppi dedicati alla morte della ragazza pugliese e, soprattutto, al suo assassino. Il video ha un funzionamento molto semplice: scorrono a tutto schermo le immagini del profilo di alcuni utenti iscritti al gruppo in questione mentre due voci – meccaniche, robotiche, siderali – leggono  i messaggi “dedicati” dagli stessi utenti all’omicida. Sono tutti incentrati sulle torture che merita, sull’insufficienza della pena di morte, su fantasiosi e atroci supplizi che ognuno immagina/auspica/augura per il mostro cucinato in quell’unico forno televisivo che va da Matrix a Porta a Porta. Tutto qui. Ma non solo.

Le immagini scelte da questi utenti come sigla della loro presenza su Facebook sono tutte fotografie che li ritraggono felici, sorridenti, abbracciati ai loro partner o ai figli, allegri insieme agli amici, intenti a mandare baci all’obbiettivo; ci sono anche gli avatar e tra questi una graziosa tartarughina colorata che incute un’istantanea sensazione di pace e di tenerezza mentre la voce recita l’efferato messaggio lasciato da chi ha scelto questo animaletto come propria immagine-sigla all’interno del social network più utilizzato al mondo. E, a proposito di tenerezza, è quasi inverosimile il passaggio in cui, dopo che la foto di una donna è corredata dal desiderio «io gli taglierei l’u........o a sangue freddo!!! senza anestesia!», appaiono due bambini, forse due fratelli non più grandi di sei o sette anni, che (sorridenti e inconsapevoli) pongono la lapide di quel «giustissimo.» che è certamente il commento di uno dei loro genitori. Con tanto di insindacabile punto dopo l’aggettivo. L’automatica precisione con cui le voci si succedono, si sovrappongono in un coro metallico a due voci (quando l’immagine ritrae più di una persona, per esempio due fidanzati abbracciati) e scandiscono la loro lettura, arriva sino a leggere come «ics» quella «x» che nel linguaggio liofilizzato degli sms e dei post significa “per”. L’ipertrofia delle vocali «al rogoooo» è scandita con la precisione di un risponditore automatico che restituisce il suono prolungato, mentre i tanti punti esclamativi o interrogativi sono recitati come «serie di segni».

L’operazione è semplice e, insieme, devastante. Prendere l’armamentario elementare di un codice quale è quello che regola il funzionamento di Facebook (l’immagine, l’avatar, il profilo, i messaggi postati) e smontarlo con la freddezza di voci metalliche; elidere completamente il contesto in cui questi segni agiscono e sottrarre qualsiasi “carne” e tangibilità alla violentissima densità delle frasi recitate. Naturalmente questa operazione di sabotaggio linguistico punta a svelare alcuni slittamenti che riguardano il funzionamento della psicologia della massa in contesti asettici come è quello di Facebook, con la strana commistione che esiste tra la potenziale membrana visuale dell’avatar e la precisione nominale degli account del social network. Gridare su Facebook è allo stesso tempo più facile e più complesso di quanto non lo sia in una piazza reale: ci sono le parole che restano scritte, ci sono dei nomi (non nel video di Gipi) e ci sono delle facce. La solidarietà livorosa per un caso di cronaca (brutale ma simile a tanti altri) è l’emanazione diretta del clima da corrida permanente in cui gli italiani si ritrovano a percepire immagini. Gipi raffredda tutto affidando alle voci robotiche la manutenzione dell’invettiva, mostrando come il senso di appartenenza al gruppo – poniamo – “Quelli che odiano lo zio di Sarah” abbia una doppia funzione: da una parte l’ingresso nel gruppo è figlio di un meccanismo ricattatorio che quasi istiga all’insulto come microcerimonia di iniziazione (gli incredibili «se non condividi non hai un cuore» che accompagnano molte di queste proposte di aggregazione) per cui la condivisione di un “essere contro” deve necessariamente passare per l’ufficializzazione dell’odio violento; dall’altra, i meccanismi difensivi, ancor prima che esorcizzanti, spingono le anime buone a marcare con nettezza brutale la loro alterità rispetto al bersaglio scelto. L’esserci in quanto singoli individui passa in subordine rispetto al più solido esserci come gruppo, e quindi la riflessione individuale lascia il posto a reazioni atroci che potrebbero essere comprensibili solo se motivate da una vicinanza emotiva alle vittime; la sovraesposizione ai raggi “ultraviolenti” irradiati dai plastici di Vespa e i particolari sempre più morbosi snocciolati da criminologi onnipresenti determinano un’allucinazione che illude gli appassionati vendicatori non a credere di essere vicini alla ragazza uccisa, ma a sentirsi tali, a ritenersi parti offese e bisognose di una vendetta, vittime – anche loro – di un avvenimento che, invece, è distante.

È l’inverso di quanto accade in un altro video, ancor più violento e incredibile, cioè quello realizzato con le telecamere di sorveglianza della metropolitana di Roma. Il video ritrae un giovane, Alessio Burtone, che colpisce con un pugno una donna di 32 anni ferendola mortalmente.

http://www.youtube.com/watch?v=rNbs1Me7ZU8

Il video, forse per la qualità che ormai rende queste immagini sovrapponibili a quelle di molto horror americano in cui la cornice da “reality” impone una certa superficie visiva, sembra l’ennesima puntata della saga transmediale sui morti viventi. Lo abbiamo visto in tanti, brutale e spiccio come solo la bestialità può essere. Ma il video non va visto solo per l’azione che racconta – e a quello ci penserà l’autorità giudiziaria – ma per ciò che accade dopo. Il corpo morente di Maricica Hahaianu sta lì, in un ampio passaggio della stazione Anagnina, mentre intorno camminano più di una decina di persone che non si curano minimamente di quella donna esanime. Passano, chi di fretta, chi con un passo che non può non ricordare l’andamento incerto dei living dead di Romero, e non si soffermano. Non restano, non cercano aiuto; forse chinano appena lo sguardo, ma questo l’inquadratura distante e sgranata di una telecamera di sorveglianza non può mostrarlo. Resta questa suprema indifferenza, che non è né una notizia né, qui, un’occasione per altra indignazione. Un’indifferenza che stride platealmente con il coinvolgimento emotivo dei commenti ripresi nel video di Gipi, o con i cori da stadio che hanno accompagnato l’arresto di Burtone: cori di amici applaudivano al gesto omicida, lo invitavano ad ammazzarne un’altra, lo identificavano come eroe. Al coro si è anche unito un membro del governo che ha ritenuto eccessivo il carcere per Burtone, in un clima da buffetto sulla schiena anticipato cui non ha mancato di fare la sua parte la tv o ancora Facebook. Il gruppo “Alessio Burtone libero”, però piace solo a 9 persone. Meno delle 1562 che intitolano il video di Gipi. Chissà perché...