UZAK 12/13 | autunno/inverno 2013

Gianfranco Costantiello

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Una deflagrazione atomica sul punto di inghiottire una città in lontananza oppure il fuoco sordo e incolore che avvolge lo scorcio di una città in un'alba fumosa. Diverse le prospettive di interpretazione a cui si presta la copertina di Tomorrow’s harvest, ultimo disco dei Boards of Canada. Del resto una plausibile chiave di lettura di questi primi anni di nuovo millennio potrebbe facilmente stare in una dialettica che oscilla fra l’inevitabilità della fine e un ritrovato sentimento di intimità, di condivisione, di sogno.
Diciassette componimenti dal suono decisamente umbratile e asciutto come fomentato da un sentimento dell’irreparabile, scandito probabilmente dalle folate di uno scenario apocalittico di una catastrofe imminente, o di una catastrofe già avvenuta (Fukushima?), il cui lascito resta taciuto, imbavagliato. Tomorrow’s harvest allora sembra sintonizzarsi lungo le frequenze distopiche di un capolavoro del passato: Radioactivity (1975) dei Kraftwerk. D’altronde il duo scozzese lo si può considerare figlioccio della storica formazione di Dusseldorf, che è riuscita egregiamente per prima nell’intento di volgere la musica elettronica verso una forma-canzone rispetto, ad esempio, alle suite intransigenti degli albori stockhauseniani.

Lorenzo Esposito


alt«In televisione non c’erano regole, eravamo degli anarchici, potevamo fare quel che volevamo perché eravamo i primi a sperimentarla, nessuno poteva dirci esattamente cosa e come farlo, perché nessuno l’aveva mai fatta prima. Nel momento in cui ci siamo dedicati al cinema, l’abbiamo fatto con molta irriverenza. Rispettavamo John Ford e i suoi western, ma volevamo fare il nostro film western. E forse questa forza ci veniva proprio dalla televisione, dove nessuno ci impediva nulla. Io ho fatto delle cose incredibili in TV. Per esempio: dovevo girare una scena con un uomo su una sedia a rotelle. Volevo fare un primo piano e montarlo con un’inquadratura in campo lunghissimo con lo sfondo a fuoco. Ora, gli obiettivi di cui disponevamo in televisione non mi permettevano di fare queste cose. Così ho fatto costruire una piccola sedia a rotelle e ci ho messo sopra un nano, ottenendo così l’effetto prospettico desiderato…»
(Arthur Penn)

Michele Sardone

Michele Sardone

Cinema e televisione sono, da anni, posti l'uno di fronte all'altro come due antagonisti, fino a decretare che, se il cinema dovesse morire (o se è già morto), ad ucciderlo sarebbe stata la televisione. La prima volta che il cinema ha rischiato di morire (o almeno, di perdere la sua natura artistica) è stato per mano dei regimi totalitari, che hanno rappresentato in maniera spettacolare la storia che stavano scrivendo: «le grandi messe in scena politiche, le propagande di Stato divenute quadri viventi, le prime manipolazioni umane di massa» (Daney) superavano il cinema, andando ben al di là dei piccoli orrori cinematografici che si celavano dietro la rappresentazione per immagini. Dietro gli allestimenti spettacolari del potere c'erano i campi di concentramento.

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