altLe affinità elettive tra il cinema di Júlio Bressane e «Uzak» sono già tutte in quella passione terminologica o vocazione a “tradurre” e dare forma alla distanza: uzak è un dis-limite, raccoglie e attraversa mondi “fuori dagli schermi” per metterli in circolo, ribaltando l’evidenza e lasciando spazio all’invisibile che sussiste. Il prefisso des-, come specifica lo stesso Bressane, «indica distanza, un passaggio di confine, ciò che resta fuori dal limite».
Con radicale coerenza, la quarta edizione della rassegna “Registi fuori dagli sche(r)mi”, a cura di Luigi Abiusi in collaborazione con l’Apulia Film Commission e «Uzak», non poteva che cominciare con la visione in prima nazionale di Educação Sentimental.
Abbiamo avuto il piacere di discutere con Bressane di immagini e di vita. A lui e a Rosa Diaz, preziosa compagna, va la nostra infinita riconoscenza.


Vorremo iniziare questa nostra conversazione dal suo ultimo film, Educação Sentimental, a partire proprio dal titolo. Al di là delle suggestioni letterarie, vedere il suo cinema è un allenamento per gli occhi e le orecchie, un continuo esercizio a vedere e a udire: è questo il senso dell’educazione a sentire, a percepire il cinema? E qual è lo scopo, se c’è, di questa educazione?

Sì. Educação sentimental, inteso come tema, viene dal mondo greco; esistono poi molti libri che trattano di questo ma il testo più famoso resta quello di Flaubert.
Quello che a me davvero interessa è l’inattualità dell’educazione e del sentimento, parole del tutto estranee al contesto moderno. Parlo della necessità di riabilitare un “sentire inattuale”.
Tuttavia questa inattualità ha qualcosa di contemporaneo: nel film si viene a creare una costellazione tra passato e presente nel mezzo della quale avviene un conflitto di desiderio che è intimamente umano. Ci sono due tipologie di desiderio: quello dell’uomo maturo che ha acquisito l’esperienza e quello dell’uomo inesperto, attratto dall’ignoto.
Il desiderio porta con sé la difficoltà a essere detto, o meglio, esso è la manifestazione concreta dell’impossibilità della comunicazione tra due corpi che più che attrarsi, si ritraggono. Il desiderio è l’insistenza a conoscere il volto dell’altro, senza riconoscersi completamente nell’altro. Si tratta cioè di una volontà di approssimazione e allontanamento in una relazione che chiamo di “cosmologia inesistente” in cui, contemplando la bellezza, nessuno dei due corpi dice “io”. In questo processo mai-presente, cioè potentemente inattuale, la musa è la morte. Se l’educazione sentimentale, come la intendo, è una confessione, quello che interessa è il meccanismo della seduzione e i suoi effetti sui corpi.

Il film è una curvatura spettacolare, una “metascena”, su di essa si viene a costruire gradatamente ciascun fotogramma. Per questo, un aspetto non secondario è l’uso della pellicola: è chiaro che non si tratta di un film in digitale e, per questo, esso è intimamente legato alla storia del cinema.
Cos’è il cinema? Una trasparenza, una pellicola trasparente sulla quale si pro-getta la propria “educazione”. Non mi interessa mostrare la storia del cinema, farne l’apologia, mi interessa il processo della storia “nel” cinema come atto d’amore con la pellicola.
Il fotogramma è una pasta fatta di micrograni che si vedono alla luce. La pellicola si compone di questi grani di materia, quello che accade nel film è secondario rispetto a quello che accade alla pellicola. Il “cinema della trasparenza” è attraversato dalla luce che crea sulla pellicola ombre e contorni; il “cinema dell’opacità”, invece, illumina solo alcune parti di una superficie buia. Sono decisamente contro il pixel digitale: il grano della pellicola si contrappone all’atomo dello schermo digitale. Non è solo una differenza di tecnica, ma di processo mentale attraverso cui vedere le cose.

Nei tuoi film i personaggi sembrano cercare un rifugio o un’altra dimensione (pensiamo ai tre personaggi di Filme de amor che decidono di incontrarsi dentro un appartamento o il ragazzo e la ragazza in A Agonia che si muovono continuamente da un luogo all’altro, da un territorio all’altro) sono sempre alla ricerca di qualcosa, come mossi da una volontà a uscire da sé per creare uno spazio di libertà. Dove finiscono i personaggi se non c’è approdo? E, se «il finale non è mai la fine perché la fine è la metà», un’interruzione o un incagliamento (come nel caso del film Uccise la famiglia e andò al cinema), dove finisce l’immagine?

Le immagini non finiscono da nessuna parte, bisogna com-prenderle. Se non si comprendono non si possono interpretare né tradurre. Oggi la tirannia bancaria si presenta come la sola possibilità di vita, una sottrazione di tempo a comprendere la vita. Nel cinema invece questo non terminare è una possibilità infinita di terminare, sta a ciascuna comprensione trovare il proprio fine. Nel momento in cui si sente la necessità di creare un’opera d’arte, realizziamo qualcosa con dei valori che si aggiungono al nostro pensiero primordiale, ci sono molte maniere di pensare un’unica cosa, proprio al contrario dell’ideologia capitalista attuale. Per questo viviamo in un mondo pre-freud, non post-freud, perché l’opera eccede l’intenzione.
Ma la fine delle immagini è soprattutto una questione filosofica: Foucault si è lungamente interrogato su questo nella sua analisi di Las Meniñas di Velázquez.
Tutto è immagine, essa vive fuori dal campo e va com-presa: l’immagine si comprende se si comprende tutto quello che le sta intorno, anche se viviamo soprattutto fuori dall’interpretazione dell’immagine.

Si direbbe che la “metà” non sia solo spazio-temporale, ma che i personaggi stessi dei tuoi film ne siano costituiti. Mescolando generi stilistici e generi sessuali, fanno del sesso una questione di stile, di pura innocente invenzione.
L’incompletezza, questo essere-metà e non meta, rende i tuoi personaggi inconsapevoli della Storia o consapevoli della finzione delle storie? Penso in particolare a Nietzsche e Cleopatra, figure ben delineate nel pensiero occidentale, a cui cambi addirittura la lingua.

Che cosa è questo incontro con i personaggi? Io sono un privilegiato perché ho un repertorio che frequento attraverso un processo traduttorio di testo, lingua, immagine, gesto; attraverso la traduzione come pratica  ogni situazione di partenza si trasforma in altro. Tutte le lingue di Cleopatra sono un canto portoghese; tutti i pensieri nascosti di Nietzsche sono verbalizzati in una “traduzione di suggestione”.
Il caso dell’Educação Sentimental rappresenta esattamente questo essere “metà” cioè una ricerca sempre incompleta: la felicità è una promessa di bellezza, un dono innato nell’essere femminile: la donna ha un’esperienza interna, una sensualità istintiva e approssimativa che la rende autorevolmente bella. La sessualità per l’uomo è invece una tragedia perché non gli è connaturata, lui soffre prima per l’inesperienza e poi per la brutalità del gesto. L’incompletezza è il processo attraverso cui mostrare la bellezza alla maniera simbolica, un processo che si fa promessa di bellezza attraverso il gesto, l’accenno, l’allusione, non con la manifestazione sfacciata dell’atto.

Il sesso senile renderebbe brutta la scena, ma se presento solo un gesto approssimativo, si realizza la promessa di una bellezza che non conosce tempo. La danza di Aurea accenna a un punto di incontro con l’infinito inafferrabile che è anche fisico, corporale: la forza cosmica del gesto permette di superare la morte, di trattenere lo sperma e prolungare infinitamente il piacere. La donna che danza devia dalla Storia cronologica per raggiungere simbolicamente l’infinito di tutte le storie; trascina e coinvolge l’uomo nell’unica educazione possibile, la ricerca della sessualità. La scena sessuale che tutti vorrebbero vedere, non appare mai generando però un godimento estatico. Questa è l’educazione al sentimento.

A proposito di questo flusso, in tutto il tuo cinema c’è una sorta di fusione tra il segno, la forma, il colore e l’oggetto. L’inizio di Educação Sentimental è dominato proprio da un circolo: la “O” nel titolo si espande per diventare colore, cielo, acqua e contorno della piscina, come la promessa di una fusione. Il tuo cinema può essere inteso come un flusso di significanti in cui tutti i significati si perdono?

Piuttosto, un’inflazione di significati. La figura del circolo è funzionale all’organizzazione del film. Il cerchio è un simbolo di completezza che viene dall’antichità, è il simbolo del desiderio ma anche la manifestazione del disagio, cioè del motivo che causa il disagio. L’espressione umana che indica spavento è la “O”. Il cerchio è quindi un’espressione di straniamento e allo stesso tempo un simbolo di inclusione. La “circumscena” rende possibile ciò che vediamo; è la scena possibile, l’incognita dell’incontro, l’immagine di una penetrazione: contempla l’inclusione e lo spavento. In questo senso intendo il circolo come organizzazione secolare del flusso. La circumscena ordina il film, ma non esclude l’errore, anzi il film deve essere  imperfetto: la direzione è una convenzione industriale, prevista dalla tecnica, che squalifica la scena. Invece l’immagine non si governa, su di essa agisce la complessità dell’interpretazione. La mia immagine com-prende la complessità, si nutre di tutte le discipline e le arti, non arretra dinnanzi all’imprevisto.

Nel corso della tua cinematografia ci sembra di intravedere una sorta di evoluzione nella rappresentazione del coito tra immagine e suono. In Un angelo è nato, il suono stridente violava l’immagine, rendendo disturbante la visione; in A Agonia, il silenzio creava una specie di sospensione, di rinvio della copula; in Educação Sentimental, infine, il suono diventa allusivo: pensiamo alla sequenza in cui una lente d’ingrandimento scorre sulle parole di un libro fino a sembrare liquida (per via del riflesso della luce) con in sottofondo i rumori del mare, quasi ad evocare, con la sua forma circolare, la piscina iniziale…

Non ci avevo mai pensato. È una copula curiosa perché vengono a mancare i corpi e al tempo stesso contempla l’immagine e il suono come entità separate. Eventualmente può avvenire una copula, ma a me interessa di più una promessa di copula o, per dirla con Abel Gance una «musique de la lumière». La forza maggiore dell’atto copulativo si ha quando i corpi sono lontani, nella promessa. Attraverso il cinema mostro lo sguardo attraverso il quale si stabilisce una relazione tra le distanze, una indisgiungibile prossimità.


Bari, 23 gennaio 2015.


Filmografia di Júlio Bressane

L’angelo è nato (O Anjo Nasceu) (1969)

Uccise la famiglia e andò al cinema (Matou a Família e Foi ao Cinema) (1969)

A Agonia (1978)

Filme de amor (2003)

Educação Sentimental (2013)