Gianfranco Costantiello, Nicola Curzio

altLa scorsa settimana abbiamo visto nel corso di questa rassegna Nuits blanches sur la jetée di Paul Vecchiali. Il film si apre con una citazione di André Gide: «Obscurité, tu seras dorénavant pour moi la lumière». Questa frase potrebbe essere un’ottima chiave di lettura anche per il tuo film, tutto avvolto nel buio. Qual è il ruolo dell’oscurità ne L’âge atomique?

L’oscurità è sempre qualcosa che rivela. Non è nelle cose più chiare, più evidenti, che c’è più verità, ma in quelle più oscure. E se si va avanti con questa idea, osservando il mondo in cui ci troviamo, ci si può rendere conto che quest’ultimo non è necessariamente come ci appare.

L’oscurità è anche il luogo dove si annidano i desideri e gli stati d’animo dei personaggi, in particolare dei due protagonisti…

Sì, perché l’oscurità è il luogo del segreto, il luogo del sentimento. Per me è tra le cose più intense al mondo.

Victor e Rainer, nonostante siano radicati in una realtà presente e attuale, sembrano appartenere a un tempo altro, a uno spazio letterario, poetico e romantico. Da dove vengono esattamente, e come nascono questi personaggi?

In realtà penso che gli esseri umani custodiscano in se stessi questa storia. Ti guardo e tu potresti essere portatore della Nouvelle Vague, anche fisicamente. La giovinezza è più anziana della sua età: contiene la storia della letteratura, della poesia, del cinema, della fotografia, della musica, dell’amore... E nel tempo presente, non esiste.
Ciò che ha valore in un film, o anche in una sola inquadratura, è la capacità del cinema di raccontare queste diverse dimensioni spazio/temporali: il passato, il futuro, il presente. Una vera ripresa, o un vero personaggio cinematografico, deve avere al suo interno tutte queste dimensioni. Perché, infondo, è la dimensione della vita, qualcosa che non è fabbricato.
Il primo film della storia del cinema, L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat dei fratelli Lumière, è un treno che “arriva”. Il cinema, dunque, consiste nel filmare delle cose che arrivano da lontano, ma anche che “vanno”. La parola francese “arrive”, infatti, contiene l’idea di ciò che arriva, ma allo stesso tempo anche un’idea di futuro.

Non a caso L’âge atomique inizia proprio con il viaggio in treno di Victor e Rainer verso Parigi. La capitale francese però è quasi irriconoscibile e col passar del tempo assume sembianze sempre più spettrali e irreali fino allo splendido finale in cui si trasforma in un bosco. Sembra di trovarsi in un limbo popolato da fantasmi e ombre. Puoi dirci qualcosa a proposito dello spazio nel tuo film?

È vero, la pellicola infatti è totalmente soggettiva. La mia intenzione era di filmare i personaggi dall’interno. Il luogo del film, dunque, non è altro che l’interiorità dei personaggi.
Generalmente in un film vengono fornite delle informazioni sull’ambientazione o sui personaggi, magari attraverso l’uso di ampie inquadrature. Nel mio film non c’è niente di tutto questo: è come se i personaggi camminassero nel loro territorio interiore.

L’âge atomique può essere considerato un film agli antipodi di Gerry di Gus Van Sant: da una parte l’oscurità, dall’altra la luce…

Sì, è possibile. Ed io adoro quel film.

A proposito di luce: l’utilizzo che ne fai in L’âge atomique è sorprendente, sia negli interni che negli esterni. Si potrebbe forse parlare di una nuova forma di espressionismo a colori. La sequenza nel bosco, poi, sembra girata al chiaro di luna, con riflessi verde/argento. Mi è tornata in mente la celebre fotografia di Edward Steichen, The Pond-Moonlight (1904), per la cui esposizione il fotografo adoperò la sola luce lunare…

Il discorso si riallaccia a quanto dicevamo prima sull’oscurità: non illuminare è un modo di illuminare. Quando ho discusso della luce con il direttore della fotografia (Hélène Louvart, nda), le ho chiesto di creare una “luce sentimentale”, specialmente nel finale. Nelle prime scene, infatti, vi è una luce molto artificiale e, parallelamente, i personaggi vivono dei sentimenti artificiali; più si va avanti, più si abbandona la mondanità della città per entrare in qualcosa che è più sentimentale, e quindi più vero, con una luce più naturale che sfiora piuttosto l’aspetto della pittura. Improvvisamente c’è questo viaggio che ha a che fare con il viaggio della luce artificiale e della pittura: è il viaggio che compiono, in effetti, i personaggi nel film. Ciò che avviene nel film, in fondo, è la possibilità di esprimere certi sentimenti, di dirsi qualcosa di intimo in un bosco. E questo può avvenire solamente alla luce della luna.

Prima noi ci siamo riferiti a un’opera di Steichen, ma qual è stata la tua fonte d’ispirazione principale?

Direi Caravaggio per quanto riguarda il finale, avevo in mente alcuni suoi dipinti. Mentre per la prima parte del film pensavo proprio alle luci della discoteca.

La discoteca ci porta allo straordinario universo sonoro del film. In primo luogo c’è la musica, che accompagna quasi tutte le immagini de L’âge atomique. Qual è il suo ruolo?

Anche la musica è qualcosa che riguarda l’interiorità dei personaggi, è come il battito del loro cuore. Al tempo stesso però si tratta di un tipo di musica che essi possono ascoltare per davvero. Con mio fratello (Ulysse Klotz, autore delle musiche de L’âge atomique, nda) abbiamo lavorato a lungo su quest’idea: la musica elettronica è qualcosa che corrisponde perfettamente al modo di suonare del mondo, interno ed esterno ai personaggi.
Credo inoltre che l’incontro tra immagine e musica generi una “terza immagine”. È questa la forza della musica: trasferire l’immagine in un altro posto.

In secondo luogo, ci sono i suoni, spesso amplificati, deformati, come e forse più delle immagini. Nella sequenza in discoteca tutto sembra rallentato, ovattato, quasi a voler dare un senso di allucinazione…

Sì, è così… Infatti, ci sono delle riprese rallentate e altre fuori sincrono proprio per ricreare l’effetto dell’ebrezza, quando l’immagine procede più velocemente del suono. Oppure, sempre con riferimento alla scena in discoteca, è possibile sentire le voci dei personaggi in maniera molto forte, anche se stanno parlando sottovoce. Questo è dovuto al fatto che, nella vita, quando si va in un night club e si cerca di sedurre un ragazzo o una ragazza, non si sente più ciò che c’è intorno, si sente solamente la voce dell’altro o dell’altra. Per me è un modo per raccontare il reale, per essere “realista”.
Per parlare meglio della realtà, infatti, bisogna trasformarla attraverso il cinema. Nel libro Le Temps scellé, Andrei Tarkovskij spiega bene questo concetto. Egli racconta di una scena cui ha assistito di persona, una donna che cammina sotto la pioggia, e ricorda di come la bellezza di questa donna lo avesse colpito. Scrive di aver visto qualcosa nella realtà, ma precisa che se avesse dovuto filmare questa scena avrebbe cambiato tutto affinché fosse “corretta”: la donna, ad esempio, non sarebbe stata affatto vestita allo stesso modo; la scena magari sarebbe stata girata sotto il sole e non sotto la pioggia, e così via… Tarkovskij dunque sosteneva che per raccontare qualcosa di vero il cinema deve necessariamente trasformare il reale.

Si può dire che questa trasformazione è per certi versi implicita nella mediazione della lente cinematografica? Cioè che quando si registra e si fa cinema la realtà inevitabilmente si trasforma in qualcos’altro…

Sì, ma anche vero che per questo film ho davvero preso gli attori così com’erano, senza imporre loro alcun modello di recitazione. Ci sono anche delle riprese “rubate”, nel senso che Eliott e Dominik non sapevano di essere ripresi in quel momento. L’ultima sequenza, ad esempio, quando camminano nel prato, è stata realizzata a loro insaputa. Ma a prescindere da questo, gli lasciavo comunque molta libertà, e cercavo di vedere a cosa portava la loro recitazione spontanea. Poi dopo lavoravo sulla luce per illuminare ciò che naturalmente essi rendevano, per rivelare il naturale. La sofisticazione è un modo per illuminare la realtà. In questa maniera ho cercato di portare sullo schermo dei sentimenti reali attraverso processi molto artefatti.

Il discorso sulla recitazione ci riporta a quanto dicevamo prima a proposito dei personaggi: Rainer in particolare parla spesso attraverso la poesia. È un personaggio poeta, a tratti sembra di ascoltare versi di Rilke...

Esatto, c’è anche un momento in cui dice: «mi sento come una barca che affonda nel mare». È un passo di Kierkegaard, da Diario di un seduttore. Rainer parla con parole di Rilke, di Kierkegaard, di Rimbaud…

Di Goethe…

Sì! E quindi il giovane Werther quasi si camuffa da ragazza… Per questo per me non è stato facile trovare un attore per il ruolo di Rainer. Poi una sera ero in un bar e ho visto Dominik (Wojcik, nda) che ha cominciato a parlarmi del plenilunio e di Chopin. E mi sono detta «ok, qui c’è Rainer». Non pensavo di poter incontrare nel 2012 qualcuno che avesse un sentimento così romantico del mondo. Portava in se stesso le origini del mio personaggio. Mi piaceva in particolare il fatto che fosse polacco, perché i vampiri vengono dalla Polonia e per me Rainer è come un vampiro, è un personaggio fantasmatico.

Nosferatu, una figura che peraltro rievoca il cinema di Murnau…

Esatto, infatti, se Victor è un personaggio molto solare, dei nostri giorni, al contrario Rainer è anziano, è un fantasma, un individuo molto pallido, che si nutre di Victor.

Magari l’intero film non è altro che un sogno di Rainer, ci hai mai pensato?

Sì, può darsi. È un bel modo di vedere le cose.


Bari, 6 marzo 2015


Filmografia

Gerry (Gus Van Sant 2002)

L’âge atomique (Héléna Klotz 2012)

L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (L'arrivée d'un train à La Ciotat) (Auguste Lumière – Louis Lumière 1896)

Nuits blanches sur la jetée (Paul Vecchiali 2014)