Michele Sardone

altAbel Ferrara non s’incontra, si può solo tentare di intercettarlo. Ha la posa del gangster, circondato com’è da sodali, factotum, ragazze eteree. La hall dell’albergo, dove è fissata l’intervista in occasione di “Registi fuori dagli sche(r)mi”, è in loro possesso: gli uomini della gang sui canapè, a confabulare sul prossimo film come se stessero progettando un colpo, le donne sullo sfondo, una intenta ad estorcere note a un pianoforte (e lo farà per tutta la durata dell’intervista), l’altra alle sue spalle a mugolare un motivetto affine e fuori tempo. Quale a questo punto il ruolo dell’intervistatore? Detective, infiltrato, pollo da spennare? Forse è meglio non chiederselo. Non resta altro che accendere il registratore e poi si cercherà di ricostruire il flusso di parole, immagini, pensieri.



«Non c’è alcun mistero nel fare film, ma c’è l’atteggiamento, l’attitudine a fare film. C’è un venir fuori dall’oscurità, una sorta di insegnamento buddista: vedere le cose fuori dal loro lato oscuro senza pregiudizio. La telecamera non mente mai, rappresenterà sempre ciò che c’è. La telecamera non è come la macchina fotografica, non ha una mente, si limita a filmare le cose che vede. Ognuno assume un proprio punto di vista verso le cose e le rappresenta in base alla propria prospettiva. Ma quando si fa cinema non parliamo dell’oggetto rappresentato, bensì lo filmiamo, in un certo senso lo leggiamo. È un bisogno di ridefinire quel che ci circonda e, di riflesso, quel che si è. Con le parole arriviamo inevitabilmente a un’impasse, a un blocco. Ci vuole forse una vita intera per arrivare a riprendere un oggetto nel modo giusto.»

(Il corpo di Abel Ferrara aderisce perfettamente immobile alla curvatura dello schienale del canapè, tranne le gambe, ora inermi, ora convulse, in ogni caso abbandonate a loro stesse. Gli occhi socchiusi e la testa leggermente inclinata all’indietro fanno pensare che sia in trance. La voce è un rauco mormorio appena intelligibile. Meno male che un suo sodale traduce. Si prova a parlare di Pasolini.)

«Essere profetici è vedere la realtà per quella che è, è dire la verità su ciò che si vede. Pasolini è arrivato tardi al cinema, non più giovane, quando era conosciuto come poeta, scrittore, intellettuale. La trilogia della vita è per me uno scherzo di Pasolini, un modo per guardare ironicamente a se stesso. La reinvenzione è una costante nella sua opera, è la prospettiva che adotta, fino a reinventare non solo il cinema stesso ma anche il romanzo. Penso per esempio a Petrolio: Pasolini scrisse in una lettera a Moravia che poteva scrivere un libro nel modo in cui tutti avrebbero voluto, in cui tutti erano abituati a leggere, ma preferì cercare qualcosa di diverso, ovvero la reinvenzione dello stile e della struttura narrativa.
Pasolini ha reinventato persino la sua esistenza, riuscendo a trovare un equilibrio fra tutte le vite vissute: la vita in strada, quella con sua madre, la vita notturna, la vita da intellettuale, regista, scrittore, personaggio pubblico...»

(Poi, passando dal molteplice all’unità, ecco un’interpolazione sul cinema di Godard, fulminante come un falso raccordo: «Godard ha fatto un film, One plus one, nel quale il montaggio era dato dalla somma di uno spezzone più un altro spezzone, più un altro ancora e così via: per Godard il cinema è la definizione del concetto e del termine “uno”.»)

«C’è il regista e c’è il pubblico, ma nel pubblico c’è anche il regista, che guarda quello stesso film. Credo che centrale sia la questione dell’esperienza filmica. Un film visto adesso ci sembrerà diverso se lo rivediamo fra dieci anni. Non ha nulla a che vedere con il gusto, il film è sempre lo stesso, ma siamo noi ad essere cambiati. Ogni film è esperienza di cambiamento per ciascuno di noi, e ognuno di noi ha un’esperienza propria e differente da quella altrui del film. Cambiano i punti di vista perché cambiano le persone, ma le parole di Pasolini non cambiano, i suoi film non cambiano. La mia prospettiva su Pasolini è mutata anche nel corso dell’investigazione che ho fatto su di lui per il film. Abbiamo fatto il meglio possibile per mostrare chi fosse per me Pasolini, ma la percezione delle persone che lo vedono non la possiamo controllare, anche perché cambierà nel tempo. Questo accade perché è impossibile pensare che ci sia un univoco punto di vista su Pasolini valido per tutti e per sempre. Ho visto Il Decameron quarant’anni fa e quando l’ho rivisto mi è sembrato un film completamente diverso.»

(Altro inserto, stavolta di Braucci, sceneggiatore di Pasolini, che fa una digressione aneddotica: in Argentina si trasmettono molto spesso in radio le canzoni di Carlos Gardel, morto ottanta anni fa; ogni volta che le ascoltano, gli argentini sono soliti dire che Gardel canta sempre meglio.)

«In modo molto egoistico dico che la morte di Pasolini non è una tragedia, ma un incubo. Se non fosse morto allora, penso che avrebbe potuto fare tanti altri film e diventare pienamente un regista, in maniera definitiva e assoluta. La lezione che Pasolini mi lascia è il riesaminare ogni giorno quello che so e che sapevo, quello che penso di sapere e quello che c’è da sapere. Quello che Pasolini mi ha dato è un sentimento di compassione: lui era una brava persona, era estremamente consapevole e costantemente sintonizzato con il mondo, vedeva il mondo per quello che è e trasformava la compassione in azione. Se si parte dalla compassione, poi non c’è più fine, perché ogni singolo atto, ogni singolo pensiero ha importanza.»

(Ferrara non risponde alle domande, le reinterpreta. Il sottofondo del pianoforte è diventato insistente e angosciante, incagliato fra due note acute nel cui intervallo si inframezzano risolini.)

«Lo spazio è una cosa infinita, si possono scegliere due punti a caso e fare un film entro quei due punti. Non smetterò mai di fare film perché fare cinema è il modo di esprimerci che condividiamo, perché il cinema è lo specchio in cui ci vediamo insieme. Non è un dono, ma è l’unico modo per dare quello che ho.
Ci sono state molte polemiche per il modo in cui nel film vengono rappresentati la morte e gli incontri sessuali di Pasolini. Non esiste alcun limite alla rappresentazione. Mi viene in mente il film di Andy Warhol in cui viene mostrato, per ore, un corpo che dorme: anche quella è un’esperienza limite. Non succede nulla, e l’unica cosa che avverti è il passare del tempo. Il cinema è questo, esperienza e rappresentazione del tempo. Non esiste nulla che non sia rappresentabile e per questo non c’è limite alla rappresentazione.
Non penso alla forma cinema in negativo, non mi manca nulla nel cinema, anzi, penso che ci siano infinite possibilità, non esiste limite a quel che posso fare o descrivere. Pasolini dice che la fine non esiste, siamo senza fine. I film sono infiniti e le discussioni sui film sono infinite. Quando filmo, cerco di andare oltre il limite della mia immaginazione, non cerco di ottenere un risultato, cerco un’esperienza. Lo schermo è al di là dell’oltre.»


Bari, 31 gennaio 2015


Filmografia

Il Decameron (Pier Paolo Pasolini 1971)

One plus one (Jean-Luc Godard 1968)

Pasolini (Abel Ferrara 2014)