Matteo Marelli


alt«Questa è la storia di una giovane vita,
di quelle a venire,
e di tutte quelle che seguiranno.»


Le parole di Miguel Gomes, da poco intervistato in occasione del suo passaggio in Italia per la presentazione di Le mille e una notte (2015), gettano una luce retroattiva sulla cinematografia portoghese, o almeno su quella con la quale ci siamo confrontati (oltre allo stesso Gomes, mi vengono in mente Joaquim Pinto, Rita Azevedo Gomes, João Pedro Rodrigues, e, ovviamente, Manoel de Oliveira). Secondo il regista di Tabu (2012) «il presente che ci avvolge, in realtà, è una temporalità cangiante: accanto ai fatti che stiamo vivendo, qui e ora, riverberano risonanze di memorie passate che il dispositivo filmico riesce a captare». È quindi possibile «filmare l'oggi, l'esistere contingente, cogliendo allo stesso tempo il transito di vite trascorse», così come l'epifania di prossime insorgenze. Diceva, a compimento del proprio discorso, che «del resto i fantasmi sono consustanziali al cinema».
Considerazioni, quelle di Gomes, che ci fanno riflettere su come, al di là delle diverse cifre stilistiche, il cinema portoghese stia esplorando questo spazio aporetico che è contrazione, o contaminazione, di opposte dimensioni temporali, un altrove sospeso tra passato e futuro... passato e presente... futuro anteriore.

E tutto questo ritorna in Cavalo Dinheiro (2014) di Pedro Costa, film che, come O Gebo e a Sombra (2012) di de Oliveira, comincia con l'ombra ed è in fondo un lungo itinerario nelle tenebre. Il lavoro sulle ombre, al centro della ricerca espressiva di Costa fin dal suo primo film (O Sangue, del 1989, girato in un impasto di bianco e nero molto laughtoniano) e radicalizzatosi in Ne change rien (2009) quasi ai limiti dell’astrazione (in una corsa verso la purezza più spinta che si traduce, innanzitutto, in saturazione dei colori), prosegue in quest'ultimo lavoro dove l'immagine prossima a obliarsi in nero, come già ebbe modo di constatare Lorenzo Esposito, si fa «barlume, [...] diffusa luminosità spettrale, ciò che resta del fuoco».
Cavalo Dinheiro è un film di corpi fatti di luce (è la luce che li fa essere nel visibile o li emargina nel buio dell’inesistente), dunque di spettri, condannati, per sempre, ad abitare il lato faticoso della vita («sarà sempre dura. Continueremo a cadere dal terzo piano. Saremo sempre trafitti dai macchinari. Avremo sempre la testa e i polmoni logorati... Continueremo a bruciare. Ad impazzire. A vedere la muffa nelle pareti delle nostre case. Vivremo e moriremo sempre così. Questa è la nostra malattia.»). Dei calchi di luce, delle tracce, delle impronte, che non sono mai simulacri, dei sostituti più o meno adeguati della presenza, ma la quintessenza dell’essere, e che, proprio per questo, conservano (riprendendo delle suggestioni di Alessandro Cappabianca a proposito de L'immagine estrema) «la flagranza del loro esserci, […] lo sconvolgimento del loro apparire».

Cavalo Dinheiro è un film politico, nell'accezione datagli da Jacques Rancière, «perché modifica nello stesso tempo la visibilità dei luoghi della povertà e la posizione della vittima, del lavoratore, dell’immigrato nel paesaggio costituito dal consenso. Il consenso - secondo il filosofo francese - […] definisce [...] degli stereotipi possibili di rappresentazione». E «la politica comincia quando si mette disordine in questo gioco, quando un cineasta va con la sua macchina da presa a trovare ovunque della bellezza nel mondo, anche in un mondo che apparentemente dovrebbe essere visto come un mondo di miseria, di dissoluzione; in modo da costituire una figura eroica, tragica, enigmatica al posto di una figura interamente definita dal suo essere lavoratore, lavoratore immigrato, lavoratore disoccupato, e così via».
E la figura eroica in Cavalo Dinheiro è Ventura, corpo inquieto e per questo minaccioso, scosso senza requie da tremiti nervosi (quell'impatto dirompente, di cui parla Cappapianca, che «un certo tipo di realtà riesce, nonostante tutto, a conservare sullo schermo anche dopo la sua trasformazione in ombra»), comparso per la prima volta, come padre di tutte le anime in pena, in Juventude Em Marcha (2006) e che da allora non ha più lasciato il cinema di Costa. Lui, immigrato capoverdiano, figlio tradito della Rivoluzione dei Garofani, è l'eterno sconfitto della Storia; la sua esistenza è stata fatta a pezzi, proprio come il suo bel cavallo Dinheiro, e ora, con più niente da perdere, rimane a conversare con fantasmi di vite trascorse, incombenze di luoghi ancestrali. Ventura è un monito terrorista, che con la sua sola presenza costringe a rompere il silenzio sulla questione irrisolta della colonizzazione (tema centrale, in tanta parte della nuova cinematografia portoghese, e attualissimo, proprio ora che gli effetti del nuovo colonialismo dei mercati si stanno facendo più evidenti e dolorosi).

Per ritornare al confronto da cui siamo partiti, Cavalo Dinheiro, come O Gebo e a Sombra, è un film fuori dallo spazio, dal tempo: tanto più attento alle dinamiche dell'oggi quanto più si mostra indifferente all’immediato contingente; capace di scavare dentro nodi e contrasti profondi che, intimamente, ci riguardano.



 

La proiezione del film Cavalo Dinheiro si terrà giovedì 28 aprile alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Lungomare Starita, 1). La proiezione sarà a ingresso gratuito fino a esaurimento posti e in streaming con i Cineporti di Lecce e Foggia.

Saranno presenti in sala il regista Pedro Costa e i critici Rinaldo Censi e Matteo Marelli. Introdurrà Luigi Abiusi.

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