«Mi fissai d'allora in poi in questo proposito disperato: d'andare inseguendo quell'estraneo ch'era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell'uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere.» (Pirandello, Uno, Nessuno e Centomila)
(letto su una rivista di moda, in attesa dall'oculista)
«Non so quante diottrie per occhio manchino a Jean-Luc Godard. Potete vederlo levarsi o indossare gli occhiali per leggere un foglio, oppure guardare nel mirino di una macchina da presa (e/o di una telecamera). Come mette a fuoco un miope? E uno strabico? (mettiamo le mani avanti: chi scrive ha sofferto di astigmatismo).
Dopo l'apoteosi fantasmatica, metempsicotica (serie di corrispondenze, congiunture orarie tra Parigi e Taipei), e metatemporale, per una cognizione del tempo tutta cinematografica, “a orologeria” di What Time Is There?; svegliatasi dal sonno pesante, acqueo (quando il peso della valigia, come quello dei materassi di I Don't Want To Sleep Alone, attraversa il quadro e l'acqua da sinistra a destra, e trascorre in galleggiamento, dimenticanza, sogno), Shiang-Chji si ritrova dentro la dura verità di The Skywalk Is Gone, biascicata da un vigile che cerca di multarla nel frastuono della città, sotto il sole acuminato della tarda mattinanata, e il vario, indistinto formicolare sui marciapiedi.
«Non c'è dentro, né spirito, né fuori o coscienza, nient'altro che il corpo così come lo si vede, un corpo che non cessa di essere, anche quando cade l'occhio che lo vede. E questo corpo è un fatto». (A. Artaud)
«Così pieno e traboccante d’anima e in generale così strutturato e determinato dalla partecipazione affettiva, il cinema risponde a dei bisogni […] quelli di ogni immaginario, di ogni fantasticheria, di ogni magia, di ogni estetica: quelli che la vita pratica non può soddisfare. Bisogno di sfuggire a se stessi, e cioè di perdersi nel mondo esterno, di dimenticare il proprio limite, di meglio partecipare al mondo e cioè in fin dei conti di sfuggire a se stessi per ritrovarsi […] di essere maggiormente se stessi, di elevarsi all’immagine di questo doppio che l’immaginario riflette in mille vite».
(Edgar Morin, 1982)
Alberi è una cineistallazione di Michelangelo Frammartino, proposta, dopo la presentazione al MOMA PS 1 di New York, in anteprima italiana all’edizione 2013 del Filmmaker Festival all’interno del cinema Manzoni, storica sala milanese, chiusa dal 2006, riaperta per l’occasione. Alberi «è un lavoro che riflette sulla natura delle immagini e che interroga lo spettatore sulla pratica della visione».
Camille Claudel 1915 è nei volti. Chiusa in un manicomio poco dopo la morte del padre, dopo la fine della sua relazione con Rodin, Camille Claudel osserverà se stessa sino alla morte in un contorno di urla, pianti e disperazione. Parlare di Camille Claudel 1915 di Dumont è parlare della scultura, dell'arte. «Il suo è un cinema che rigetta il senso compiuto e sterile, che, immune a semplificazioni, rifiuta grumi tematici e ridicole considerazioni intellettuali» (Sangiorgio, Baratti, 2012, p. 57).
Abbandonata dal suo fidanzato, Adèle, depressa e svuotata, va a vivere da sua cugina Rachel. Per dimenticare Mathieu e ritornare a vivere, le raccomanda Rachel, deve incontrare altri uomini…
L’espressione di un volto o le pieghe del deserto hanno in comune – nel film di Bartas – la stessa frequenza cardiaca interna. Dune dalle crepe del vento dove ogni spostamento d’aria produce uno scardinamento maggiore degli spazi, degli angoli degli occhi allargati e allagati ma ancora così claustrofobici.
James Franco, dopo essersi misurato con As I Lying Dying, altro grande romanzo faulkneriano, riparte dal capolavoro The Sound and the Fury, da Benjy e da quel lamento che prova a dire il tormento indicibile dell'esistenza prima di spegnersi nell’odore malinconico dello stramonio.