Gemma Adessso

andereNon è solamente l’Heimat1 - luogo fisico connotato senza incertezza -  ma soprattutto l’aggettivo indefinito “altra” ad aggiungere e segnare uno scarto concettuale nel tema del ritorno ribaltando la questione e invertendo l’ordine della ricerca: il movimento avviene da fermi ed è un viaggio che porta lontano.


Nel film di Reitz, incontestabile capolavoro (fuori concorso) di questa mostra, il ritorno diventa ricerca di un posto, di una terra mai raggiunta, di uno spazio mentale in cui i progetti si accumulano, i sogni si sgranano in prospettive ipotetiche e le speranze sono ancora delle alternative possibili al destino uguale e implacabile in cui si vive per lavorare e dove il contrario, se avviene, è nei sogni animati magari dalla mano di Miyazaki.
Un poema epico in un unico blocco (230’) di visioni a strapiombo sul fallimento (o sull’immaginazione) ambientato negli anni ’40 dell’800. L’alternativa a restare è quella di ripensare un posto in cui riuscire a vivere; una terra di promesse ideali la cui conoscenza avviene prima di arrivarci, con la dedizione all’idea che esista un Fuori nel quale vivere.
Allora la questione che si pone non è solamente quella del rapporto ancestrale con un’interiorità complessa (cosa arriva da fuori? cosa nasce da dentro?), ma la risposta alla domanda “come si esce dall’Heimat, come si raggiunge l’Altro”?

La patria altra coincide con un posto senza coordinate nel quale (ci) si può solo perdere: passano gli affetti, crollano le case e chi parte, come chi resta, non fa che morire… anche se su una spiaggia tropicale con un sole fisso nel tramonto irreale (The Zero Theorem, Terry Gilliam). Il Brasile è il pretesto del cambiamento, un posto esotico qualunque dai futuri possibili, desiderabile quanto più lontano dal reale, vivo nei dettagli di una lingua remota, generoso di promesse irrealizzabili quindi invisibile. Il Brasile è il posto evocato (dal cinema?) ma che non può essere reso se non con le parole straniere di chi lo sogna o con il canto nostalgico di chi è partito; pur essendo costante presenza del film non esiste immagine che ne possa attestare la reale esistenza fuori dallo sguardo fisso di Jakob e dal riflesso in controluce delle striature di un amuleto.

Il bianco e nero è funzionale a rafforzare il concetto che indietro non si torna, al massimo si sta, in ogni epoca fissi, come in un fermo immagine di una cartolina epocale, a rischiare la sopravvivenza e lavorare per essere riconoscibili, costruirsi un’identità già decisa e assecondare il tempo nelle fasi di un’alterna fissità. Poi però gli stacchi tenui di colore, appena percettibili come l’esattezza di un verso di Valery (“si alza il vento, bisogna tentare di vivere” il riferimento è presente nel film di Miyazaki, The wind rises) segnano dei passaggi nella Storia e modificano le stanze, scrostano l’intonaco dalla parete umida, muovono la piega di una veste appena verde e il riflesso rugginoso di una lampada spenta. Le gradazioni di viola sulla superficie perfetta del mondo vengono sfogliate da lente carrellate, l’album di famiglia si compone di piccole storie ordinarie e di incontri sorprendenti (come la comparsa di Herzog nei panni di von Humboldt) e il passato remoto viene gradualmente ritrovato, cioè reinventato, attraverso l’assoluta mancanza di fedeltà al mondo conosciuto.

La ricerca del “posto” prescinde dal mondo e resta negli occhi e nelle intenzioni di chi cerca; è processo doloroso, “fissità positiva”, di allontanamento dal vuoto interiore.
Al contrario, restare dentro il proprio vuoto implica l’allontanamento irreversibile dagli altri e un procedere solo verso se stessi, una entropia autoindotta2.
Il movimento ribaltato è quello che va da un fuori respingente (la società che non riconosce) verso un’interiorità ritrovata e ricca di possibili sviluppi (lo sguardo di Jakob nel film di Reitz, i sogni di volo di Jiro nel film di Miyazaki) e il lavoro è la paradossale via di fuga da un disperante autoisolamento.
Lavorare per vivere diventa sogno possibile, la ricerca di un “posto” nel mondo che sia la misura esatta della visione: una terra promessa nella quale tornare quando il vento si placa.

Note

1. La casa dell’Heimat è proprio “quella”, patria e rifugio che si lascia per necessità e che si pensa con nostalgia.

2. Questa che per eccesso di semplificazione chiamerò “fissità negativa” è il movimento entropico visibile soprattutto nel film di James Franco, Child of God.
Lester è figlio di una natura primitiva e selvaggia, alla continua ricerca di una casa, viene letteralmente partorito dalla terra, vive in caverne e anfratti remoti sconosciuti alla società civilizzata. Lester è il rimosso della civiltà, il suo ghigno è l’unico residuo che lo approssima all’umanità. I soli rapporti possibili sono il risultato di una fantasia malata che anima indistintamente cadaveri congelati e peluche.
Lester non può uscire dall’Heimat perché è prigioniero inconsapevole delle sue ossessioni, figlio di una natura atroce  è condannato a fuggire da sé e da ogni mondo possibile.