alt«Siamo in tempi d’emergenza» ci diceva tempo fa Gualtiero De Santi, «dunque serve anche dotarsi degli strumenti necessari, […] in senso intellettuale e culturale, ma anche di indispensabile militanza civile». La più incalzante delle urgenze è quella dei nuovi flussi migratori che le recenti scritture della catastrofe raccontano come se si trattasse di una cellula tumorale sull'orlo di metastizzare il cosiddetto primo mondo. È necessario dare voce allo scompenso, ma altrettanto indispensabile farlo riuscendo a smontare le strategie retoriche messe in atto dal terrorismo massmediatico.


In molti, nell’arte, stanno provando (spesso lucrando) a farsi carico di questo fenomeno che ridisegna gli assetti geopolitici. Ai Weiwei con Human flow prosegue il discorso sulla questione migratoria, una tematica che sente vicina, perché, come ha tenuto a puntualizzare, «prima di essere un artista io sono un rifugiato. Mio padre era esiliato, ho vissuto i primi vent’anni della mia vita in un buco sottoterra. Conosco cosa significhi essere escluso, venire considerato un nemico di stato».

Weiwei, da tempo irretito dal demone dell’ambizione, con questo documentario vorrebbe offrire la prospettiva più ampia sulla questione, uno sguardo a volo d’uccello, come dichiara fin dalla prima inquadratura, realizzata con una ripresa aerea zenitale che, dopo aver catturato il volo di un gabbiano che attraversa la superfice azzurra del mare, coglie un barcone alla deriva con tutta la sua portata d’ordinaria migrazione.

La dichiarazione d’empatia è subito negata dalla scelta di regia: il posizionamento della macchina da presa, infatti, come ricorda Philip Scheffner, regista di Havarie, presuppone un rapporto gerarchico (sia visivo sia politico) delle parti coinvolte nella rappresentazione. Per quanto poi, in corso d’opera, Weiwei cerchi d’azzerare le distanze, esponendosi (o esibendosi) in prima persona, resta comunque negli occhi quello scarto iniziale.

Human flow procede schizofrenicamente per accumulo, attraverso una giustapposizione di registri visivi talmente diversi che finiscono reciprocamente per annullarsi (da immagini di prossimità realizzate adoperando il cellulare si passa a riprese effettuate con droni, time-laps, fino a studiatissime composizione dei quadri). Il regista ha giustificato questa scelta sostenendo che «di fronte a tutte queste diverse possibilità di sopravvivenza, per non negarne nessuna, ho capito che l’unico modello giusto a cui ispirarmi era quello del collage, tanto dal punto di vista compositivo che da quello visivo». L’impressione che rimane però è quella di un’involontaria dichiarazione d’impotenza: l’impossibilità a raccontare dettata dalla mancanza di un punto di vista.