Una dossologia del vento che si trasforma in acqua, prima odore, poi sparizione. Drift non è un racconto e se lo è esso è solo l’inizio di una leggenda raccontata dentro i bordì di un cafè e di due donne - Josephine e Thereza - che ad un certo punto si separano e tutto ciò che accadrà dopo sarà solo l’inizio di un viaggio, attraversando l’oceano, annullando confini, limiti, parole. Drift è sguardo che conduce, ipnosi o movimento allucinato del mare che annienta, dissolve, si lascia attraversare.


Helena Wittmann ripensa l’immagine che diventa acqua viva e liquida nel movimento ondulatorio che imprigiona gli occhi perché qui siamo noi che veniamo risucchiati dalla sua materia fluida e infinita, ed è un immergersi senza trattenere, uno scivolare dentro lo schermo per andare e andare alla deriva. Cosa vede Thereza? Cosa vediamo noi? Gli sguardi si separano, il corpo di lei si abbandona sulla barca dentro un sonno o un sogno sbeccato da lenti abbagli di sole sulla coperta, o forse è solo il desiderio di sentire il suono di una piccola morte breve perché «l’acqua è sempre presente nell’immaginazione che ci riporta dalla non vita alla vita e dalla vita alla morte. L’acqua è il confine, la soglia, che, come la soglia tra la vita e la morte, è sempre in movimento, mutamento che è, nelle parole di Bachelard, “insaisissable”» (G. Gorgoglione 2011). È Esperienza sensoriale, inghiottiti anche noi da ignote voci che sono bassi, che sono echi; e restiamo spettatori di questo enorme nulla che risuona sbattuti da un’immagine fantasma proprio lì dove l’immagine dello spazio non diventa altro che una forma che si apre su di noi: «non è rilevante certificare che cosa si rispecchi nell’immagine, bensì capire cosa ci venga restituito grazie a essa. L’immagine, si è visto, è dotata di una porta di accesso» (O. Breidbach e F. Vercellone 2014, p. 133) e allora il mare ci lavora gli occhi così come il suono frantuma l’orientamento e non si può più distogliere lo sguardo perché abbiamo perso la misura. Lo schermo diventa esperienza del luogo che, essendo fluido, ci riporta chissà dove, indietro nell’altra dimensione possibile, lì dove c’è un ritorno e casa è solamente uno strappo di mare attaccato alla finestra.

Cosa resta di questo lento naufragio d’occhi?


Bibliografia

G. Gorgoglione (2011): Watery Existence: immaginari dell’acqua tra arte e letteratura nella poetica modernista,  in Between, vol.1, no.1.

O. Breidbach, F. Vercellone (2014): Pensare per immagini, Bruno Mondadori, Milano