alt«Il loro malessere cresceva al calar della sera…si sentivano distratti, sviati proprio al margine del sogno. In verità partivano per altri lidi: rotti all’esercizio che consiste nel proiettarsi fuori da sé»
(Jean Cocteau, I ragazzi terribili)



Lo schermo è inondato di liquido seminale in un bianco e nero lattescente e luminoso; la realtà si frammenta tra tenebre e chiarore cristallino, e lo sguardo precipita in uno squarcio onirico febbricitante di erotismo.
Les garçons sauvages di Bertrand Mandico, si offre allo sguardo dello spettatore come una ferita aperta che mostra fiera la sua splendida lacerazione di carne viva, è materia palpitante e sanguinante.

Presentato in concorso alla 32. Edizione della Settimana Internazionale della Critica, segna l’esordio nel lungometraggio del regista francese, dopo aver confezionato meraviglie tra cortometraggi e mediometraggi, come Henry Darger Manhen, Montreur de Seins, Notre Dame des Hormones e Prehistoric Cabaret, per citarne alcuni.

Un atto di violenza, un crimine commesso da cinque ragazzi ai danni della loro professoressa e la conseguente punizione, scelta dalle rispettive famiglie, per redimere e correggere i “ragazzacci terribili”, come li chiamava Jean Cocteau, rimasti impuniti dalla legge.
Un viaggio, il cui scopo iniziale è quello di indirizzare i giovani sulla diritta via, si trasformerà in un’iniziazione per purificare il mondo dalla violenza e dalla guerra, una trasformazione fisica, psicologica e sessuale, unica soluzione per eliminare l’aggressività.
Una crepa apre un varco verso una realtà intrisa di erotismo emozionale, uno spirito libera l’anima ferina, che i cinque condividono, spingendoli a dare sfogo alle loro pulsioni; la guida di un capitano dai metodi severi non sarà sufficiente a redimerli, fino a quando una tempesta li condurrà su un’isola misteriosa non iscritta in alcuna mappa nautica.

Come Ulisse si ritroveranno su un’isola sconosciuta, pronta a offrire ogni forma di piacere, “una grande ostrica in cui è cresciuta vegetazione anfibia”, la sua natura è femminile e sessuale, i ragazzacci si delizieranno bevendo da frutti fallici, mangiando ricci che ricordano il sesso femminile e saranno soddisfatti in ogni loro voglia, accolti tra le gambe di una natura generosa e voluttuosa. Ogni elemento, ogni forma, ogni corpo sprigiona sensualità, come in un’Odissea erotica, la scoperta dell’isola e delle sue meraviglie, introduce alla conoscenza di una nuova realtà, di un aspetto dello spirito umano, più placido, mansueto e mite; è il femmineo, cui approdano attraverso il piacere dei sensi e la loro soddisfazione, in una divina danza dionisiaca.

Il cinema di Bertrand Mandico è esplorazione di percezioni, sensazioni e sensi che hanno come matrice unica il desiderio. Il regista francese scava in un universo parallelo dove predomina la sensualità dell’essere, animato da creature desideranti. Mani, gambe e bocche protese si offrono per compiacere ed essere compiaciute, osservare ed essere osservate, come nel suo Prehistoric Cabaret, dove in un caleidoscopio di colori, dalle sfumature calde e carnali, corpi sinuosi si aprono voluttuosamente allo sguardo altrui. «La visibilità del grido, la bocca aperta come voragine d’ombra, in rapporto con forze invisibili per rendere visibili le forze dell’invisibile» (Gilles Deleuze).

Mandico si muove su un territorio ormonale, attraverso un erotismo surreale e visionario, in cui la demarcazione tra i generi non è mai troppo netta, dando spazio a ossessioni e perversioni, fedele alla lezione del regista polacco Walerian Borowczyk, cui ha dedicato anche un suo lavoro, Boro in the box. Nelle sue opere i due sessi sono spesso destinati, non solo a incontrarsi, ma anche a scambiarsi, l’uno e l’altra confusi e fusi in un unicum, come accade anche in questo suo ultimo film.

Il regista, scegliendo di girare questo suo nuovo lavoro su pellicola, è riuscito a rendere al meglio l’opalescenza del suo bianco e nero, in cui i bagliori dei grigi più chiari e del bianco sono talmente sfavillanti da imprimere di ricordi emozionali la retina dello spettatore. L’alternanza con il colore regala sorprese inattese all’occhio, e così capita di scorgere alberi totalmente neri che offrono frutti splendidamente colorati. Come ha dichiarato lo stesso Mandico, il suo intento in Les garçons sauvages era di usare il colore alla maniera di Koji Wakamatsu, rossi che sfumano in blu notturni e verdi baviani sfolgoranti, innumerevoli sfumature vagamente seventies così vicine anche al cinema di genere italiano di quegli anni, in una fantasmagoria cui ha abituato il suo pubblico più appassionato.

L’estetica visionaria del film è accompagnata da un comparto sonoro che fa da tappeto allo scorrere filmico, complice nella tessitura delle maglie di un sostrato surrealista, omaggiato anche da uno dei personaggi del film, Tanguy, le cui tele tanto ricordano le sfumature utilizzate da Mandico. Un delirio visivo che oscilla tra i mondi fantastici di Jules Verne e i ragazzi selvaggi di Burroughs, Les garçons sauvages è un viaggio rimbaudiano, tra liquidi corporali e carni desideranti, verso la liberazione dalla costrizione dei generi uomo/donna tramite agrianie dionisiache
in cui il femmineo placa tempeste e dissolve ogni furore dell'agone marziale.

«Schiume di fiori, mentre salpavo, m'han cullato, E talvolta ineffabili venti m'han dato l'ali.
Martire affaticato dai poli e dalle zone, Il mare che piangendo mi addolciva il rullio Faceva salir fiori d'ombra, gialle ventose, Ed io restavo, simile a una donna in ginocchio...»
(Arthur Rimbaud, Il battello ebbro)