Matteo Marelli

alt«Quando gli dei vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere». Avrebbe potuto sposare un uomo comune; fare la dattilografa; avere una vita modesta. È lei stessa a dirlo. Invece Jackie ha scelto di stare affianco a John F. Kennedy, colui che si impose nell’imaginario come un nuovo Re Artù che volle seduti alla sua Tavola Rotonda luminosi cavalieri e raffinati intellettuali capaci di “respingere i barbari oltre le mura del castello”.


Così venne raccontato da Theodore White sulle pagine di “Life". L’idea, però, di questo ritratto agiografico, devozionale, capace di trasmettere una forza edificante, e di fissare un’iconografia fu di Jacqueline (autrice ombra dell’intervista pubblicata sette giorni dopo l'assassinio di Dallas) ispirata dalla canzone che chiudeva Camelot, spettacolo portato in scena da Richard Burton nella parte del re e Julie Andrews in quella di Ginevra, molto amato, almeno stando alla narrazione della First Lady, dal presidente. «Jacqueline – come dichiarato da Larrain -, pur nella nebbia del suo trauma, sapeva che qualcuno doveva finire la storia di quell’uomo. […] lei ha trasformato il marito […] in una leggenda. Ne ha definito l’immagine, ne ha consolidato il lascito. E nel farlo, lei stessa è diventata un’icona».

La forza del film sta proprio nel rispetto mostrato verso l’icona, del suo voler essere tale (determinando così un cortocircuito con l’immagine che questa donna ha voluto proporre di sé e della propria famiglia: un’immagine inedita rispetto ai canoni sclerotizzati della ritrattistica ufficiale, verrebbe quasi da dire di prossimità se considerata in rapporto al destinatario): ciò che vediamo è quello che Jackie vuole mostrare di sé («Mi piace pensare che non avremo mai complete certezze sul suo conto. Non conosceremo mai il suo odore, la luce del suo sguardo quando si era davanti a lei. Quello che possiamo fare è cercare. E mettere insieme un film fatto di frammenti»).

Si pensi ad esempio ai moltissimi momenti in cui la protagonista si confronta con il proprio riflesso (su tutti, forse, quando dietro il finestrino della macchina che la sta portando al corteo funebre, il suo volto si sovrappone con l’immagine rifratta della folla, stabilendo così, in maniera inequivocabile, quel rapporto di prossimità – sempre comunque mediato da un filtro – prima accennato), alle diverse maniere in cui declina quella complessa dinamica che è l'auto-ritrarsi, il “guardarsi dal di fuori”: in Jackie la verità è la posa (forma spesso meno artificiale – e comunque più rivelatrice – della naturalezza), lavoro cosciente di messa in scena di sé. Come direbbe Roland Barthes: «Poso, so che sto posando, voglio che voi lo sappiate, ma questo supplemento di messaggio non deve minimamente alterare...la preziosa essenza della mia persona».

Larrain prosegue, dopo Neruda, a indagare le dinamiche dello storytelling, reinventando le coordinate del biopic. Se il precedente progetto dedicato al poeta cileno era, stando alle parole dello stesso regista, «una fantasia incentrata su di un artista deciso a inventare il suo destino attraverso la creazione del proprio stesso mito», in Jackie la mitopoiesi avviene per interposta persona: Jacqueline portando a termine la narrazione della presidenza kennediana secondo le traiettorie da lei stabilite, ponendosi al di sopra della Storia (sempre però consapevole d’esserne parte), si dà a chi verrà come « la più sconosciuta donna famosa dell’era moderna». Imprendibile, come prima di lei furono Arkadin e Charles Foster Kane.