Dopo giornate di afa cisposa, e di escursioni termiche al limite della sopportazione, tra sale-frigo e l'esterno in totale balia del sole e della cappa vaporosa proveniente dal mare, e lì sul tardo pomeriggio, l'epifania dei bambini che spruzzano in una scena di cristallo, sospesa, per una strana inclinazione del sole, pestando le pozze salmastre a riva, e, per una volta, neppure l'ombra dei vecchi veneti, di quelli tutti azzimati che senti sbraitare sugli autobus, con il loro bieco fascio-dialetto, contro i giovani dalla pelle un po' più scura della loro, invece livida o di cartapecora, per il solo fatto di essersi seduti là dove loro sarebbero “padroni a casa loro”, un sedile, una panca, un semplice palo a cui aggrapparsi, ma in realtà per l'impossibilità, dopo tanti anni, di poterlo buttare al caapranzi1 non alla mummia consorte, ronfante in baldacchino di raso, ma alla badante in bella carne che sparecchia; ieri dopo il meraviglioso Monte di Naderi, fuori s'è scatenato la ridda di vento e piovasco.


Ed era prevedibile, perchè prima c'erano state le proiezioni “atmosferiche”, in qualche modo uggiose di Monte appunto e di Drum di Keywan Karimi (per la Settimana della Critica), di cui non posso dire nulla per una questione deontologica, perciò riporto un estratto di una email arrivatami da Fabio Rubè dopo la proiezione in sala Perla, e che credo confluirà in un articolo in via di pubblicazione su “AntinerdCinema”: “Il film è sospeso nella dimensione metafisica del suo bianco e nero onirico, brumoso; e dell'errare non solo del protagonista ma proprio della macchina da presa, con i suoi movimenti lenti e inesorabili, vertiginosi come quando esce dalla finestra e fuori trova i percussionisti che poi continuano anche dopo, nella sequenza successiva; e dunque il costante rumore, ruminare di fondo, come il bisbigliare stesso dell'entità cinematografica, noise-cinema. Metrica interna all'inquadratura: il che fa di questo film uno stupefacente poema moderno, eppure atemporale, un'apnea, un'osmosi, in una parola: il Cinema.”

L’apnea. Monte, dopo Cut, ulteriore atto di forza, di resistenza di Amir Naderi, in qualche modo secolarizzazione del martirio cristiano, alle cui icone peraltro il protagonista non si piega. Capolavoro (d’ipnotismo, stoicismo, congnizione leopardana della Natura), il secondo di questo festival dopo Les beaux jours d’Aranjuez: concerto per spasimi e pietraia, nebbie e cornacchie, che a un tratto accelera verso il ritmo estenuante, monodico, di martellate contro il monte. È la poetica del colpo, reiterato, che scandisce la metrica stoica di questo film e del cinema secondo l’ultimo Naderi: i tre personaggi superstiti vagano in una dimensione fatta di urlo, pena, di dolore accampato ai piedi di una parete rocciosa, che diviene dimensione metafisica e cinematografica, (non) estenuata dalle martellate fino al sorgere di un nuovo sole.

Brimstone di Martin Koolhoven è tripudio fantoccesco all’insegna di Paul Verhoven (da L’amore e il sangue a Black Book), Tarantino, fino addirittura a Carpenter e Craven, da cui deriva anche certo ghigno o il senso del divertimento nel manipolare plastiche, celluloidi: cappi di budella intorno a un collo, lingue mozze, crani squarciati con rivoli di cervella sul selciato; sono i materiali meramente cinematografici che grondano, si malleano, prendono fuoco come le celluloidi tarantiniane. Il reverendo, mattatore in nero, passa da una struttura compunta, ieratica del primo capitolo, ancora mortale, referenziale cioè di una classica realtà di west, fino a quella di un mostro di plastica che si scioglie nel fuoco ma continua il suo allucinato sermone come un ossesso di Craven: d’altronde era stato già sgozzato nel secondo capitolo, nel bordello, il più bello, così luminosamente efferato e promiscuo. Eppure dal ghigno il film passa all’improvviso allo struggimento sincero, quando i personaggi tornano per un po’ umani con le loro sofferenze da frustate, sodomie, calci e pugni mentre si sfoga il coito, e le piccole ambizioni western, spesso frustrate: la famiglia nella prateria, aprire una falegnameria, le domeniche a messa, sul pulpito, da dove tracima il dogmatismo cristiano del reverendo nel senso della pedofilia, dell’incesto riscontrati punto per punto nella Bibbia. O l’improvvisa storia d’amore con un bandito scampato a un duello alla messicana, che si staglia nella luce abbagliante di una soglia ecclesiale; la donna avvilita, umiliata in ogni modo, percossa con furia tutta umana,  maschilista, imbavagliata con una museruola d'acciaio, eppure alla fine, liberatasi proprio grazie alle proprietà elastiche della sua plastica, sceriffa padrona del proprio destino, e di quello dei suoi successori che però hanno come un sentore, qualcosa di esistente, nascosto dietro una siepe.


Nota

1. Caapranzi s.m. invar. [voce gergale], tosc. [voce caratteristica della parlata popolare toscana specialmente di Livorno]= culo, deretano, tafanario. (fonte: Marco Compiani)