altAmos Gitai, dopo The Arena of Murder, torna a fare i conti con l’assassinio di Rabin, episodio che segna la fine brutale dell’utopia, il progetto di pace tra Israele e Palestina. Del resto per lui l’atto di filmare ha sempre coinciso con l’essere al servizio di una memoria collettiva o col farsi eco di una catastrofe. La prospettiva adesso non è più quella dell’universo intimo e caotico, ma della coscienza collettiva.


Rabin, the Last Day
si apre con un’intervista a Shimon Peres che ricorda il clima di tensione creatosi attorno al Primo ministro deciso a cedere una parte della terra biblica ai nemici palestinesi, certo della necessità del compromesso, che quella strada rappresentasse il giusto per la comunità, concetto da pensarsi in termini di progetto collettivo.

Un inizio che ci ricorda come nulla possa dirsi prima della parola. D’altronde «In principio era il Verbo»; nell’ordine della creazione ciò che precede è solo una vuotezza accecante, e infatti Peres e l’intervistatrice sono corpi ritagliati su un fondale nero, abissale. L’immagine si forma, di conseguenza, per opera della parola creatrice. La realtà mostrata dunque altro non è che un costrutto semantico, concetto caro alla tradizione rabbinica per la quale indagare la parola vuol dire scrutare il senso del mondo.

Rabin, the Last Day comincia dalla testimonianza orale, che diventa sequenza d’archivio, per farsi poi fiction; un film, quindi, di immagini non immediate ma reduplicate. Un film che, per quanto evidenziato, trova il proprio registro espressivo nel legal drama, genere costruito attorno al potere della parola e del discorso, visti come strumento sovrano d’indagine, che trasforma lo spettatore in una sorta di giurato, chiamato a farsi carico della tensione tra legge e giustizia. Genere che si svolge prevalentemente all’interno di spazi d’illusione (le stanze processuali), ambienti deputati alla “messa in scena” dei fatti (il ricordo si crea nel corso del suo allestimento), in cui si afferma una concezione della vita come rappresentazione (finzione e realtà s’incontrano e si confondono divenendo l’una il doppio simulacrale dell’altra).  Tutti aspetti che permettono al regista di continuare a esplorare lo statuto e il significato delle immagini.

L’urgenza di Gitai è sempre quella di esserci per testimoniare, consapevole, allo stesso tempo, di dover compiere delle scelte linguistiche che si adeguino alla necessità dello sguardo. Come detto in apertura, con quest’ultimo film, torna a confrontarsi con l’omicidio di Yitzhak Rabin; ora però il regista non vuole più essere una sentinella solitaria, ma esige consapevolezza e compartecipazione da parte dello spettatore. Ecco quindi spiegato il perché di uno stile controllato, intelligibile, conforme addirittura alle esigenze di genere, rispetto all’andamento rapsodico di The Arena of Murder.
A rimanere immutata è la domanda: perché questo assassinio?