«L'immagine filmica non è il mondo, né un'immagine specchio, ma il risultato di un lavoro di messa in scena che produce un simulacro (del) visibile.»

Partire da questa considerazione di Francesco Casetti per riflettere su un film di Frederick Wiseman, ovvero di uno tra i massimi documentaristi di ogni tempo, può sembrare un paradosso. Eppure, lo stesso autore ha sempre rifiutato la succitata qualifica, preferendo invece paragonarsi ad un romanziere dell'Ottocento. Addirittura, in un'intervista afferma: «mi considero semplicemente un regista che gira film drammatici basati su eventi reali.»

Affrontare teoricamente il cinema di Wiseman significa porsi immediatamente in un orizzonte che supera la discrasia tra realtà e finzione, trasformandole in elementi coalescenti all'apparato filmico. Se in fase di produzione l'occhio della macchina da presa si muove in un orizzonte visivo spazialmente determinato e diviene protesi dello sguardo dello spettatore (il soggetto percipiente), in fase di post-produzione il girato subisce un processo di ri-formazione. Nell'atto della scelta del materiale che andrà poi a comporre il cut definitivo e della sua successiva riorganizzaione (un atto, questo, che determina una nuova scansione o un nuovo schema cronologico), l'immagine registrata assume quindi una seconda configurazione, inscritta in un sistema aperto partorito dal montaggio.
Ogni film di Wiseman modella infatti un microcosmo dominato da dinamiche di forza (persino temporali) interne. Non sarebbe peregrino accostare la sua opera alle riflessioni di Foucault sul concetto di eterotopia, intesa come luogo reale, interconnesso a tutti gli spazi esistenti, ma in grado di costituirsi specificatamente in quanto alterità capace di indagare aporie e criticità del tempo presente. Un luogo reale che diventa cartina tornasole della contemporaneità.
In Jackson Heights conferma questo assunto con massima evidenza: oggetto d'indagine profilmica della m.d.p. è un quartiere newyorchese popolato da persone di molteplice provenienza (in particolare sudamericana e bengalese), cultura ed etnia; uomini sovente emarginati, reietti, drop-out.

Se si può scientemente parlare di un soggetto che funzioni da legante nel corpus filmografico di Wiseman questi è lo spazio. In Jackson Heights è ascrivibile a quella particolare sottocategoria del cinema del regista bostoniano, immeditamente caratterizata da titoli che sono determinazioni di luogo, capace - utilizzando una definizione coniata da Cristina Piccino - di trasformare la frazione di spazio raccontata in un vero e proprio ecosistema. Il film si pone quindi sulla falsariga di opere come Central Park, The Garden, Aspen o Belfast, Maine. Eppure, rispetto ai precedenti, In Jackson Heights compie uno scarto significativo: qui lo spazio non è più un territorio geograficamente organico, bensì una congerie di sedimenti disorganici consustanziali all'indeterminatezza identitaria che caratterizza il quartiere.

L'alternarsi di campi totali descrittivi a lunghe sequenze osservative che eludono qualunque forma di frontalità1non è, questa volta, funzionale unicamente a sancire l'avvicendamento temporale dei singoli frantumi del narrato. Assolve, in prima battuta, al compito di ristrutturare uno spazio disarmonico, materico, in perenne sommovimento. Uno spazio caotico, difficilmente delimitabile da coordinate tradizionali. Solo la macchina-cinema, in fondo, sembra deputata a mantenerlo unito. Non a caso, il film si apre e si chiude con il medesimo campo lunghissimo, un'inquadratura plongée - quasi vedutista - che mostra il quartiere dall'alto, in due momenti differenti della giornata. Lo sguardo della macchina da presa, che nel corso del film assume pressappoco il ruolo vicario di osservatore, si eleva qui fino ad abbracciarlo virtualmente.

Non bisogna infine dimenticare che molte opere di Frederick Wiseman hanno tracciato una mappatura tassonomica dei rapporti di schiavitù che legano l'homo americanus al capitale. Già High School si costituiva come testo in questo senso paradigmatico, portando al grado zero l'equivalenza tra istruzione e indottrinamento: il fine di ogni azione è la produzione.
In Jackson Heights s'inserisce anch'esso lungo il solco tracciato da film come The Store - Grandi magazzini o Welfare. L'avvento di una società multinazionale destinata a fare piazza pulita delle piccole imprese a conduzione familiare diventa oggettivazione del progressivo annullamento di un'identità (sia essa personale, culturale oppure collettiva) sacrificata sull'altare del neolibersimo.


Nota

1. Nel cinema di Wiseman non ci sono interviste né persone che incrociano il proprio sguardo con l'obiettivo della macchina da presa.


Bibliografia

Bertetto P. (2007/2008), Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo della favola, Bompiani, Milano