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«Un medium sa quando assopirsi.
Lasciamolo dormire.»

È questo potente, ineludibile senso “della fine” che pervade Francofonia di Alekandr Sokurov, che è soprattutto progetto, lavorazione: un film en train de se faire; “un film in corso di realizzazione”, di cui non si vedrà la versione definitiva, ma solo frammenti, apparizioni, lacerti sparsi. È più cinema che non film. Un’elegiaca opera di montaggio che celebra la scomparsa di un certo modo di vedere, pensare, e interpretare il cinema (e la modalità specifica in cui “quel” cinema aveva configurato il mondo), capace, allo stesso, di sorprenderne la forza rigenerativa che lo sta facendo rinascere, diverso eppure in continuità con sé stesso.


Del resto per risorgere, per poter venire rielaborata, rimontata, ripensata in forma nuova, qualcosa deve prima essere stata. «Il tempo è un nodo» viene detto, ad un certo momento, nel corso del film, parole che condensano quello che già scrivemmo a riguardo di Sokurov, che da sempre affronta la dimensione temporale come se fosse un movimento circolare-oscillatorio, una «“forma simbolica” che annulla passato, presente e futuro a favore di un lunghissimo attimo».
Significativa a questo riguardo la frase pronunciata dallo stesso regista nel corso di in un’intervista: «Credo che per vivere il cinema debba cominciare dall’inizio e all’inizio c’è evidentemente la pittura». Eccolo allora di fronte alle opere del Louvre («Potrebbe essere che questo museo valga più di tutta la Francia?»), cominciando dalla Zattera della Medusa, dove Géricault ritrasse «i sopravvissuti alle frontiere dell'esperienza umana» (Jonathan Miles), la stessa condizione (consapevoli dell’azzardo) di noi spettatori davanti alle nuove esperienze di visione, di cui il film cerca di dar conto, passando, schizofrenicamente, dalla bassa all’altissima risoluzione, fino ad immagini più reali del vero (su tutte le riprese aeree di Parigi che sembrano simulare le esplorazioni virtuali con street view).

E poi ancora davanti ad altre immagini-quadro raffiguranti questa volta corpi di potere come L’incoronazione di Napoleone di David o La libertà che guida il popolo di Delacroix dove i soggetti ritratti sono spettri vagabondanti per le stanze del museo, che interrogati dal regista sanno soltanto rispondere con l’espressione che li ha consegnati alla Storia: «C’est moi!» detto da Bonaparte, e «Liberté, égalité, fraternité» pronunciato da Marianne. Battute che i due si scambiano anche quando si ritrovano nella stessa inquadratura originando così un cortocircuito temporale che ci riporta a quell’idea di eterno ritorno che da sempre contraddistingue il gesto registico di Sokurov.

A ricordarlo è anche Alena Shumakova, curatrice de Il tempo sospeso, la raccolta in italiano degli scritti di Sokurov che a questo riguardo fa notare l’interesse del regista per il present continuous della lingua inglese e, più in generale, per le forme verbali che esprimono una contrazione, una indecisione o una contaminazione delle dimensioni temporali: «Parlando, usa spesso espressioni come: “Questo è passato futuro… passato presente… futuro anteriore”, non per sottolineare una categoria grammaticale (che, tra l’altro, in russo non esiste) ma per definire in maniera precisa un’impressione».