Michele Sardone

Il cinema di Tsukamoto è stato sin dall’inizio un cinema di fusione: se in Tetsuo a fondersi erano uomo e macchina, in un grigiore metallico e umbratile, in Fires on the plain (remake dell’omonimo film in bianco e nero di Ichikawa) la fusione è tra la carne e giungla (resa non solo come opprimente groviglio di vegetazione pullulante, ma soprattutto sotto forma di intrico di forze, di pulsioni energetiche e decadimenti purulenti), nella fosforescenza del più spinto cromatismo.

Precondizione è il mettere sotto stress il corpo, attraverso l’aumento della temperatura prima corporale (uno stato febbrile pervade tutto il film) e poi ambientale, sino a portarlo oltre l’estrema sopportazione di sé, e infine a disorganizzarlo – via organi, entraglie, membra – e riorganizzarlo in un patchwork misto a foglie e terra, dal quale emerge, come un bassorilievo da fango primordiale, un nuovo organismo, una “nuova carne” (per utilizzare un’espressione cara a Cronenberg, padre putativo di Tsukamoto e nume tutelare del suo cinema).

Il passaggio di energia tra i corpi è dato dall’irraggiamento: col salire della temperatura, la luce irradiata diventa dapprima rossa, incendiaria, e innaturalmente nitida, con ogni immagine messa letteralmente a fuoco; poi si passa al successivo livello, dove l’incandescenza della luce, il suo calor bianco, rende tutto macchia di colore lasciata a seccare sul piano-tavolozza dello schermo: le forme si sfocano, diventano melliflue, sgorgano dai bordi dell’immagine in un unico flusso fotonico, correlato immaginifico del desiderio, forse, di perdere se stessi, il nome, l'origine per divenire foglia, albero o radice che si dirama infinita nella natura eterna, per poter essere partecipi della sua immortale illimitatezza.
La fusione a questo punto diviene totale, allucinatoria, si fondono anche i sensi, finché non riusciamo più a vedere neanche un cane (troppo fluttuante è la macchina da presa) divenuto schegge, lampi, latrato, un segno che è insieme immagine e suono, un “noosegno” (per usare la dizione deleuziana che esprime la percezione di percezione) da udire con gli occhi e vedere con le orecchie: non vediamo il cane, bensì il suo suono.

L’estremo lucore bianco della visione ipersensoriale sfocia nell’accecamento, nel buio della quiete notturna, dove la materia oscura riflette l’ultravioletto al di là del percepibile. Il film riemerge come fantasma di un ricordo, come ombra evocata dal chiarore pallido di una fiammella, che irradia timida il riverbero di un fuoco che brucia negli incubi di chi è sopravvissuto, di chi è riuscito cioè a sostenere l’epifania della potenzialità della carne.