altNella sezione Orizzonti, Heaven Knows What, dei fratelli Safdie, all’inizio fluttua lattescente, in amenza d’eroina, o forse steso in mezzo a un nevaio; e l’amplesso è vibrare d’elettronica, ipnotica, come oboi sintetici a scandire spirali che inghiottano, e minimog lanciati ad alta velocità dagli altoparlanti della Darsena, che ti tengono attaccato allo schermo, con gli occhi spalancati, tanto che penso vuoi vedere che vediamo il primo capolavoro della mostra? continuasse così, come un enorme, inquietante videoclip, sarebbe una pacchia: una specie di film di fantascienza, straniato, proprio dalla musica e dal dominio del bianco, fatto di cose elementari, realistiche; povere cose di un futuro, o di una realtà alternativa in cui regnano solo le gote bianche di Harley e gli occhi blu di Ilya. Ma col passare del tempo il film svela la sua natura (più) realistica, perdendo molto di quella estraniazione che straziava ed esaltava (così come quella musica così provvidenzialmente invasiva), ma mantenendo comunque un livello di rappresentazione degno, mentre la mdp dei Safdie sta addosso ai personaggi e ai loro deliri, vaniloqui, consunzioni di randagi (che sembrano richiamare il Van Sant di My Own Private Idaho), con picchi emotivi improvvisi, coincidenti con smarrimenti, perdite, vuoto vagare dentro la ruvidità degli spazi metropolitani.


C’è 3 Coeur di Jacquot alle 9, ma mi sveglio sempre più congestionato, di muchi, corrosivi, che ora sono lattiginosi mentre prima giallivano ghignanti nel fazzoletto, densi e vasti nella loro aseità; e stordito per il poco sonno (la notte è fredda e sibilante quest’anno); scosso da una tosse furente che graffia forte bronchi, faringe, gola ecc., e mi toglie pure l’appetito, tant’è che mangio solo un panino a pranzo, con mortadella, insalata e pomodori: il che mi fa riflettere sul fatto che i pomodori, almeno quelli piccoli, le ciliegine, non legano con la mortadella ma soprattutto con le fette del pan bauletto. Ma il punto è che arrivo a pensare, tra le imprecazioni in una metrica ancestrale e gaia del tipo de l murt d mamt, crnut ch l corn long, figh d pttaan, ciol mmocch a te e a tutt la settma legiona toou, e figh d quatt ciol bastard1 (laddove, per via dell’indistinzione del plurale dal singolare del sostantivo “bastard”, non so ancora, dopo anni e anni di tentativi di esegesi, se la traduzione italiana corretta sarebbe “figlio di quattro ciole e perciò bastardo”, oppure “figlio di quattro ciole bastarde”, per sottolineare, in quest’ultimo caso, il concepimento di un bastardo, da parte di 4 peni per loro conto bastardi, producendo un effetto vertiginoso, senz’altro nietzschiano), che l’actigrip uno e trino stia fallendo nel suo compito di diserbazione mucolitica, che altre volte m’aveva rimesso in piedi velocemente - mentre prima languivo nel letto, mencio come “ciola quando ha finito di fare” - con grido di giubilo, perché così sarei potuto andare a giocare a pallone, che il rischio di febbre era lontano, e i muscoli delle braccia, delle gambe, rispondevano con baldanza ai tentativi di smuoverli, e così sognavo doppi passi, stop volanti, rabone e biciclette di ogni tipo, e punizioni sotto gli incroci, come quelle di Zidane, re dei danzatori e dei coreografi, in campo, ancora più di Ronaldo, non certo Cristiano, così macchinoso e sgradevole nelle movenze, soprattutto quando fa lo pseudodoppiopasso (un guazzabuglio marionettistico che non farebbe paura neppure a un pavernu come Chiellini: anzi già me lo vedo che gli toglie la palla con le sue gambe asincroniche e si fa una risata, prima di passare a Pirlo: da lì in poi sarà estasi, armonia messa su dal giocatore italiano più grande di tutti i tempi) e comunque esecrabile più di un liberista di sinistra (o come lo si voglia chiamare uno del PD), quando si mette in posizione, gambe divaricate e impettito, prima di battere un calcio di punizione.

Dopo 3 Coeur, ancora in concorso, Manglehorn conferma il piglio di David Gordon Green, che blandisce i suoi personaggi, sconfitti e teneri, fragili eppure dotati di forza, tant’è che Manglehorn-Al Pacino (ovviamente straordinario nella sua interpretazione) sembra un alter ego di Joe-Nicolas Cage, con in più un carisma e un talento (nella vita e nell’attesa, della vita: una donna [m]andata via) che lo porta a compiere miracoli, a fare cose straordinarie, magari tratte fuori dalla farragine. Ed è difficile non seguire con partecipazione le vicende di questo “randagio della vita” (direbbe Rosso di San Secondo) mentre attende anche solo una lettera da mettere nel reliquiario che ha eretto nel ripostiglio, fatto di foto, ritratti, lettere di lei; e mentre affronta come svuotato una contingenza mostrata da Gordon Green nella sua durezza e ruvidità eppure quasi alleggerita, resa impalpabile, evanescente da una fiducia nel mondo che si riversa e si rivela (e viceversa) nelle musiche degli Explosions in the sky (anche se nel precedente, molto bello, Prince Avalance erano più pervasive), a intessere un contesto immaginale che si scioglie, sfuma, traspare.


Nota

1 I morti di tua madre, cornuto con le corna lunghe, figlio di puttana, ciola in bocca a te e a tutta le settima legione tua, figlio di 4 ciole bastarde.