Nicola Curzio

altUna grande scatola nera, una bara, si muove tra le strade di un piccolo villaggio cinese ai piedi di una montagna, trasportata in lungo e in largo da un pugno di uomini che progressivamente, nel corso del film, dovranno ricredersi sull’identità del defunto. A chi appartiene il corpo carbonizzato all’interno dello scuro sarcofago? Si tratta della giovane Huan Huang, scomparsa ormai da quasi un giorno? O forse è di Chen Zili, che pure manca e il cui documento di riconoscimento è stato ritrovato a pochi passi dai resti del cadavere? Ma vi è davvero un cadavere in questa bara che a qualcuno sembra essere troppo leggera?


È intorno a questi interrogativi che ruota e prende forma la trama di Binguan, esordio cinematografico di Xin Yukun, in gara nella Settimana Internazionale della Critica, una delle due sezioni autonome della Mostra del Cinema di Venezia. Come i luoghi in cui si svolge la storia, il film è pervaso da una luce funerea che carica di ambiguità ogni elemento ripreso e alimenta una sensazione d’incertezza che induce a dubitare di quel che si vede: in questa villaggio, in questo film, niente è quello che sembra. Il modello di partenza, dunque, richiama alla mente opere fondamentali come Twin Peaks o, spingendosi ancora più indietro, Le Corbeau di Henri-George Clouzot; perché al centro della vicenda non vi sono singoli individui, ma un’intera comunità, con i suoi segreti e le sue pulsioni nascoste.

Tutto cambia, quindi, nel corso della pellicola, a seconda del punto di vista di chi guarda. La struttura sembra quella di una matrioska: a ogni capitolo corrisponde una diversa chiave di lettura che permette di riordinare in maniera sempre diversa i frammenti che compongono il film. In questo senso la scena nella foresta è rivelatrice: un personaggio guarda qualcuno, senza accorgersi di essere a sua volta guardato da qualcun altro. L’atto del guardare è sempre parziale, illusorio, ma al contempo è il principale motore dell’azione.

Xin Yukun realizza in questo modo un film a incastro, un congegno perfetto che pecca, forse, nello svelare troppo presto il suo funzionamento, la sua logica interna. Perché una volta compresa la natura meccanica di Binguan, alla fine, quasi tutto si appiattisce: ogni immagine trova una precisa (e funzionale) collocazione, ogni personaggio una dimensione, ogni scena un senso. L’intricato intreccio appare solo un pretesto per poi spiegare l’intero film, quando invece sarebbe potuto essere uno strumento per sviluppare le atmosfere spettrali, i vuoti e le zone buie che si susseguono nella prima parte dell’opera. Il mistero riguarda la storia, non le immagini. Una volta risolto il puzzle, ogni ombra sembra scomparsa, ogni spiraglio richiuso. Resta solo quell’aria plumbea che mantiene in vita un debole dubbio e così, probabilmente, l’intero film.