THE_INVADER_STILL_01-thumb-600x337-25492Un biondo pettignone femminile, lasco in favore di camera, squarcia per cinque metri lo schermo: un cretto pantagruelico, pronto a fagocitare l'invasore, lo straniero alla conquista del Vecchiomondo, e il suo desiderio di dominazione e sottomissione.

 

 

Ancora una volta il sesso (ossesso quanto in Shame) come terreno di lotta e sistema di regolazione dei rapporti di forza; ancora l'uomo nero che si scontra con l'ottusa marmoreità dei pallidi simulacri occidentali (rimanendone al contempo irretito, come avviene nel “necrofilo e negrofilo” [cit. da G. Loiudice] Cime tempestose, un incanto perso nel riflesso di fantasmi e cadaveri del passato). Ma se l'approccio italiano (Crialese e Olmi) è più pietista, derivazione di un cristianesimo che vede un povero cristo in ogni immigrato (senza però volerlo crocifiggere in una chiesa, anzi, vedendo l'origine del male proprio nelle istituzioni, sclerotizzate dalle fobie globalizzate), Provost tenta di liberarsi del clichet di "come sono buoni i (registi) bianchi", facendo leva proprio sugli stereotipi e le fobie occidentali: l’invasore nero straripa potenza e virilità, vigoroso e nerboruto come un tronco d’ebano, sodomizzatore formidabile di donne bianche e ricche, violento e vendicativo verso i bianchi brutti e cattivi. Al contempo si tiene alla larga anche dalla retorica dello straniero portatore di valori positivi, come se l’ondata migratoria dovesse spazzar via con sé le impurità morali dell’occidente: l’invasore venuto per dominare viene soggiogato dalla società desiderante, risucchiato dalla psichedelia allucinogena dell’erotismo dell’immagine, da un’abisso che fende la visione, che possiede chi guarda, ammaliandolo e tenendone ben stretti i succosi genitali.
E però, uscito dalla sala, continuo a preferire lo sguardo da zoologo di Attenberg, e vedere discosto, come un rispettoso documentarista, in questa fauna umana che a branchi o a coppie transuma di schermo in schermo, ora il ventre del gorilla, con le sue pelose mammelle al vento, ora i polpacci nudi dello stambecco, con gli zoccoli di sughero che si dipartono dai calcagni, e zoccolando e scodinzolando chiappe di giumente alla ricerca del proprio stallone (bianco, nero o sauro pezzato purché dominante).