Nella pancia di un mostro metallico, tra le cupe cavità addominali del suo organismo vivo, nel suo stomaco a ingranaggi, nel suo intestino vibrante, tra membrane molli che si dilatano e si contraggono ritmicamente, tra succhi gastrici ed enzimi digestivi: è in un luogo del genere che si muove, rigida, la telecamera di J.P. Sniadecki, entrata da chissà quale orifizio, come quegli apparecchi sottili e invasivi che la nuova chirurgia medica utilizza per raggiungere le zone più remote del corpo umano. E lentamente, superando lamine e tessuti pulsanti, fra gli stridori del ferro e i gemiti dei macchinari, lo sguardo contratto della mdp torna in superficie e permette di scoprire l’identità di questo essere abnorme e ansimante: si tratta semplicemente di un treno, che sfreccia a tutta velocità nel continente cinese.

The Iron Ministry di John Paul Sniadecki, presentato nella sezione principale del festival, è un’opera fatta di carne e di metallo. Letteralmente, se si considera che il primo scompartimento riconoscibile è un vagone-macelleria, che contiene e trasporta carne di ogni genere. Come nel cinema di Shin’ya Tsukamoto, che è composto dalla stessa materia ibrida e che rappresenta forse il migliore esempio – insieme a quello di Cronenberg – della possibile fusione corpo-macchina, il film è un organismo vivente. In questo caso, come dice a un certo punto un passeggero del treno, si tratta di un “drago di ferro”, in continuo movimento. È per questa ragione che la cinepresa non abbandona mai i vagoni, non scende mai a terra per l’intera durata della pellicola; tutto è vissuto dentro un grande, infinito, convoglio ferroviario che in questa maniera diviene mondo a sé: ipotesi di un treno-cinema che contiene e sviluppa ogni cosa al suo interno.

L’americano Sniadecki, così, pur spostandosi in un viaggio durato tre anni lungo i binari della ferrovia cinese, realizza un documentario claustrofobico che non conosce esterni, se non quelli osservati dal finestrino (che però comunque si astraggono sempre in qualcos’altro). Un’operazione che sotto tale aspetto non può non ricordare il film di Bong Joon-ho, Snowpiercer, che pure si svolgeva tutto all’interno di un convoglio in corsa, sebbene in un contesto di pura finzione cinematografica. Evitando però di discorrere su questa accademica e quanto mai inutile distinzione tra generi (per certi versi e senza troppe difficoltà, infatti, i due film si potrebbero considerare due volti della stessa medaglia), la principale differenza tra le pellicole pare risiedere nel fatto che quella del regista sudcoreano conosce un inizio e una fine, un capo e una coda (del treno), quella di Sniadecki no. The Iron Ministry è un film che in questo modo riesce a riflettere intrinsecamente l’immensità di ciò che vorrebbe documentare: una sconfinata rete ferroviaria, il sistema circolatorio di un Paese tanto grande quanto inaccessibile, la Cina.

Il lavoro di montaggio diviene allora fondamentale, poiché unisce attraverso salde giunture i diversi blocchi (vagoni) di questo film-treno, condensando al suo interno tantissime realtà eterogenee, spesso in contraddizione tra loro: si incontrano così agricoltori, operai, lustrascarpe, studenti, impiegati; si passa dalla prima all’ultima classe, imbattendosi in persone di ogni età o etnia. All’interno di ogni blocco, spesso costituito da un unico piano sequenza, si registrano voci, posture, gesti, sguardi sempre diversi. Le lunghe discussioni tra i passeggeri, cui raramente il regista prende parte verbalmente, sono spesso avviate o alimentate dalla sola presenza della telecamera, elemento comunque sempre alieno in questo compresso ecosistema. Il risultato è una pellicola architettonica dai forti connotati antropologici, che studia e osserva l’essere umano attraverso l’ambiente che lo circonda (e lo condiziona). Non vi è presunzione di esaustività, quanto il desiderio di offrire un ricco e sfaccettato ritratto di un popolo che troppo spesso è ridotto a unica, amorfa, unità.

In questa maniera, rinnovando un classico incontro tra cinema e ferrovia, Sniadecki filma un gigantesco Paese in movimento, realizzando un’opera solida ed energica che nel finale si scopre anche, inevitabilmente, politica. Il film termina com’era cominciato, con lo schermo nero invaso da suoni metallici, che precedono il passaggio del dragone di ferro. Il mondo là fuori è avvisato.