vecchiali

«Obscurité, tu seras dorénavant pour moi la lumière» (André Gide)

Una dolce melodia riecheggia in riva al mare, unendosi al suono delle onde che s’infrangono silenziose contro un molo. È l’alba e la luce del sole fatica ancora a riscaldare l’aria gelida lasciata dalla notte. Un uomo, colto di spalle, immobile ai piedi della banchina, con lo sguardo rivolto verso la tavola d’acqua salata, fissa un punto indefinito. La sua mente e il suo cuore, però, sono altrove.


Si conclude così, sospeso tra sogno e ricordo, il film più bello visto quest’anno a Locarno e non solo: Nuits blanches sur la jetée di Paul Vecchiali; ultimo, sublime, adattamento cinematografico de Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij, dopo quelli altrettanto mirabili, pur molto diversi, di Luchino Visconti e Robert Bresson, che il film del cineasta corso non manca di ricordare.
Altre quattro notti di un sognatore. Un altro, lo stesso. Ritorna il personaggio forse più malinconico e commovente della storia del cinema, questa volta vagabondo arenato sulla sponda del mare. E con lui ritorna la notte, con le sue ombre e i suoi fantasmi, luogo dove i desideri più nascosti prendono forma (umana) e l’anima trova qualcosa o qualcuno con cui scaldarsi. È qui, infatti, che avviene l’incontro tra Fëdor e Natacha, spinti al dialogo per colpa di un vecchio satiro, non per caso interpretato proprio dal regista Paul Vecchiali.

Fëdor (Pascal Cervo), nel cui nome vi è già tutto Dostoevskij, è un uomo solo, “uno strano tipo che vive altrove”, come lui stesso si definisce, un soggetto “ordinario” che attacca il prossimo per procurarsi dolore e, forse, così avere l’impressione di essere vivo. Natacha (Astrid Adverbe) invece è “straordinaria”, probabilmente perché esiste solo nella mente di Fëdor. Paul Vecchiali la coglie quasi sempre nella penombra, specialmente all’inizio del film quando forse anche il giovane protagonista dubita della sua esistenza; angelo caduto dal cielo in suo soccorso o forse ennesimo atto compiuto dal ragazzo per flagellarsi. D’altronde, l’elemento masochista del racconto di Dostoevskij, meno presente nelle pellicole di Visconti e Bresson, diviene centrale in Nuits blanches sur la jetée, come rivelano i primi minuti del film in cui Fëdor ha uno scambio di battute col personaggio di Vecchiali. Ma non occorre sbilanciarsi, in questo film che si apre volentieri a diverse interpretazioni e cambia a seconda di chi lo guarda, come solo le grandi opere d’arte sanno fare.

A illuminare i volti dei due personaggi nell’oscurità vi è un fascio di luce proveniente da un faro alle loro spalle; raggio verde che richiama il cinema crepuscolare di Rohmer, ma che ricorda anche quel luccichio lontano e intermittente, fissato da un altro grande sognatore di nome Gatsby, nel celebre romanzo di Fitzgerald. Senza dimenticare che luce e oscurità sono anche i due poli entro cui nasce e si muove il cinema stesso. Più distanti, poi, inghiottiti dal buio, proliferano piccoli astri colorati, milioni di lucine blu, gialle, fucsia, celesti, arancioni, verdi, che sembrano formare una vera e propria costellazione dell’anima, riflesso dello stato di solitudine in cui si trova il protagonista. Alle spalle di Fëdor e Natacha, invece, si erge minaccioso un muro di cemento armato, presenza ingombrante che pare alludere alla triste realtà (diurna) che incombe su di loro. Eppure è proprio ai piedi di questa parete grigia che si compirà il miracolo del film, in una delle più belle scene che la storia del cinema possa ricordare: la danza libera, leggiadra, sensuale, in cui si lanciano i due giovani sulle note di un motivo che si confonde con la brezza marina. Prima insieme, poi lei da sola. Il tempo si ferma e si resta incantati di fronte a tanta bellezza. Un corpo che balla nella notte. Negli occhi rapiti di Fëdor si nasconde lo sguardo innocente di un fanciullo, lo sguardo sognante di qualcuno che ama.

Nell’arco di quattro notti si compie ancora una volta la tragica vicenda. Un uomo si innamora di un fantasma che si dissolve proprio quando la distanza per un bacio sembra essersi colmata e le labbra tremano impazienti. Vecchiali questa storia sa raccontarla con la leggerezza e la lieve ironia di un maestro, attraverso un utilizzo sorprendente del digitale e ricorrendo ad alcune geniali invenzioni (la tecnologia, l’iPhone, che oggi potrebbe rendere vano un racconto del genere basato tutto sull’attesa, diviene qui elemento mediante il quale l’autore interviene su gli eventi narrati).
Nel finale, dopo che i campi medi su cui il film è tessuto lasciano il posto a delicatissimi primi piani, autentici atti d’amore verso la settima arte, mentre pian piano la notte si dirada, un uomo si scopre solo in riva al mare. È l’alba e nell’aria ritorna quella musica soave ascoltata poco prima. Nel quadro compaiono i titoli di coda e con loro, per brevi, fugaci istanti, le immagini dei due corpi che danzano nella notte, ricordo  ̶  per chi guarda  ̶  di un momento di assoluta, pura, beatitudine: «un intero attimo di beatitudine! È forse poco, anche se resta il solo in tutta la vita di un uomo?» (Le notti bianche, Fëdor Dostoevskij).