La narrazione nel cinema di Lav Diaz funziona secondo processi di condensazione lenta, raggrumandosi progressivamente attorno a quelli che via via si definiscono come i nodi narrativi principali, partendo da un caos indifferenziato di immagini, scene, tessere di un mosaico che piano piano prende forma. Cosa che comporta un ruolo attivo dello spettatore, chiamato a incasellare, mettere ordine, collegare, comprendere i fili narrativi.

Con quest’ultimo film, Mula sa kung ano ang noon, appare evidente un disegno più complessivo dove i concetti sovraesposti si possano estendere all’intera filmografia del regista che acquisisce così il ruolo di macrostruttura di cui i singoli film rappresentano dei tasselli. Diaz in questo film riprende, riannoda, prosegue, anticipa personaggi e linee narrative che percorrono gli altri suoi film. Lo stesso regista ci indicò di cercare una continuità nella sua opera.
Il personaggio di Joselina, affetta da pesanti handicap fisici, appare un’estensione di Florentina Hubaldo, a sua volta discendente del ragazzo ucciso di uno dei primi film del regista, West Side Avenue, personaggi che assumono su di sé la tragedia di un paese. E il fatto che Joselina sia usata come guaritrice la fa incrociare anche con la sciamana di Century of Birthing ma anche con la protagonista di Himala di Ishmael Bernal, opera fondante del cinema filippino che Diaz cita, in modo enunciativo come propria guida sempre nei suoi esordi di West Side Avenue. E, volendo allargare lo sguardo cinematografico, Joselina, a un certo punto del film, potrebbe essere anche l’Emilia di Teorema, la serva contadina che assume una connotazione mistica, ma lo sviluppo dell’opera la assocerà più alla Elsa di Himala.

La macrostruttura cinematografica si allarga comunque al di fuori della sola filmografia di Lav Diaz. Per fare altri esempi, Padre Guido sembra portare in nuce Padre Tiburcio di Century of Birthing; i misteriosi furti e uccisioni di vacche, mezzo di sostentamento della comunità di protagonisti, sono come quello del carro di Heremias; la venditrice di cianfrusaglie che si rivela un’infiltrata della polizia interpreta un ruolo come i personaggi di Melancholia; le sevizie ai prigionieri, da parte delle squadracce paramilitari, come in Death in the Land of Encantos; la storia che irrompe nelle vicende umane, la feroce dittatura di Marcos, la legge marziale, fanno poi di Mula sa kung ano ang noon come un capitolo parallelo di Evolution of a Filipino Family, con il riferimento ai desaparecidos i cui corpi saranno poi ritrovati in Melancholia. Mula sa kung ano ang noon attraversa il cinema di Lav Diaz, ne mette in luce la complessa stratificazione.

Joselina è la terra, la natura generatrice, ma anche straziata. Mai come nel cinema del regista filippino, appare fondamentale il contesto ambientale del film, mai definito, che sappiamo essere nell’arcipelago di Mindanao. Un territorio estremo, dove la violenza della natura esprime la violenza di un paese martoriato nella storia da dittature e colonizzazioni: «Questa storia è la memoria di un cataclisma. Questa storia è la memoria del mio paese» dice lo stesso regista in voce off. Un paesaggio dove palpabili sono il vento e la pioggia, sia una pioggerellina diffusa, sia violenti temporali. Un paesaggio popolato di creature magiche come il kapre, il demone degli alberi, un paesaggio dalle variazioni repentine della luminosità, e la fotografia del film può di colpo passare dal buio a una luminosità abbagliante che rischiara la sala cinematografica. Un paesaggio dominato da contrasti dirompenti, in un territorio dove, come viene detto dai personaggi, si alternano dieci stagioni secche a dieci umide. Fino ad arrivare al luogo focale del film, la roccia sacra, lo scoglio che si staglia come un promontorio sui flutti di un mare in burrasca.

È un paesaggio primordiale, dominato dalla furia degli elementi, dalla lotta tra i principi naturali di roccia e mare, tra Scilla e Cariddi. Un luogo che assume il ruolo di altare, dove avvengono gli eventi chiave del film proprio come il parto della sciamana in mezzo alle fronde di Century of Birthing. E il prefinale cristallizza in un’immagine questa conflagrazione di elementi ancestrali, quella rituale del fuoco che galleggia su una zattera sull’acqua, che si estingue lentamente sotto la pioggia. L’epitaffio del film ma non il finale vero e proprio: ancora un’ultima scena delle torture dei corpi paramilitari, scena che si interrompe bruscamente. Non c’è una fine dopo cinque ore e quaranta di film, non aspettiamoci conclusioni nel cinema di Lav Diaz, un regista che asseconda il tempo, lo contempla e lo abbraccia.