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Presentato in “Signs of Life”, la nuova sezione del Festival che si propone d’indagare i territori di frontiera del cinema, tra nuove forme narrative e innovazione del linguaggio, l’ultimo film di Hervé Pierre-Gustave, in arte HPG, è un’opera molto personale, quasi un autentico filmino di famiglia, che però ha la capacità di non chiudersi nel suo universo domestico, ma di dialogare con chi guarda, rivelandosi essere «per prima cosa e soprattutto una commedia, realizzata con lo stile di un documentario», per usare le parole dello stesso regista/attore (tratte dall’intervista presente nel pressbook).


Ciò che rende particolare e provocatorio questo film è il fatto che HPG è un autore di film porno, con una pluriennale carriera alle spalle. Non è la prima volta, però, che il pornodivo francese si dedica a un’opera non streattamente pornografica, avendo già realizzato in passato film come Les Mouvements du bassin (2012), presentato proprio a Locarno nella sezione Concorso Cineasti del presente, o On ne devrait pas exister (2006), selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs e incentrato sul tentativo di un attore porno di lavorare nel cinema tradizionale. Senza dimenticare Il n’y a pas de rapport sexuel (2012), documentario di Raphaël Siboni che assemblava decine di registrazioni di making of dei film hard di HPG. Questi due ultimi lavori citati, in particolare, alimentavano quel desiderio di riscatto e quella vena irriverente che contraddistingue l’opera di HPG. Fils de si inserisce in quest’ambito, essendo un’operazione a cuore aperto che, da un lato, tenta di conferire dignità a un mestiere che generalmente viene considerato tra i più squallidi, dall’altro, (si) interroga su cosa significhi fare cinema oggi.

What’s Your Job Daddy? è il titolo scelto per il lancio internazionale della pellicola ed è forse ancora più esplicito nel indicare qual è il punto di partenza, la scintilla, da cui prende avvio la storia e la riflessione del film: Hervé è diventato padre e suo figlio ben presto potrà domandargli qual è il suo lavoro e scoprire la verità. Gwen, la sua compagna, lo mette alle strette per fargli cambiare vita e mestiere. Nasce così un lungometraggio girato a mano, che segue l’andatura scomposta e irrequieta del suo protagonista, tra set a luci rosse, discussioni in famiglia e preparazione di biberon. La cinepresa di HPG si muove ludicamente in un unico spazio che ingloba casa e luoghi di lavoro, di fatto annullandone il confine. La dimensione del gioco assume importanza, non interessando il solo rapporto padre/figlio, ma abbracciando l’intera pellicola e conferendo a quest’ultima un tocco di leggerezza che stride con la serietà del tema trattato. Partendo dalla sua esperienza personale, HPG dirige una commedia dissacrante carica di umanità, che non si esaurisce in un facile racconto morale sull’importanza di accettare se stessi e gli altri per quello che sono, ma che mette in discussione le stesse convinzioni alla base di un certo cinema d’oggi, tra reale e finzione, tra autenticità e mistificazione, tra documentario e film porno.